Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot


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Brevi riflessioni filosofiche sul nibbāna

Abbreviazioni:

AN: Aṅguttara Nikāya
SN: Saṃyutta Nikāya
MN: Majjhima Nikāya
Ud: Udāna
Iti: Itivuttaka
Sn: Sutta Nipāta
Vism: Visuddhimagga
PTS: Pali Text Society

Introduzione

Fin da quello che la tradizione ricorda come il suo primo discorso pubblico, ovvero il celeberrimo Dhammacakkappavattana-sutta (“Discorso della messa in moto della ruota del Dhamma”, SN 56.11), il Buddha ha proposto un sistema non già teoretico ma eminentemente pratico, indicandone la meta finale in termini di visione (cakkhu), conoscenza (ñāṇa), quiete (upasama), super-conoscenza (abhiññā), perfetta comprensione (sambodha) ed estinzione (nibbāna) (PTS 5.420). Il presente contributo intende fornire delle riflessioni di carattere filosofico a proposito di quest’ultimo “concetto”, dapprima calandolo nella prospettiva fenomenologica, ove il buddhismo – nell’autorevole opinione di vari studiosi[2] – sembra trovarsi a suo agio più che in altre, successivamente mostrando di essa i limiti ermeneutici e restituendo del nibbāna la sua impossibilità a essere compreso in termini filosofici univoci.

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Al di fuori del condizionato: cessazione della “personalità” e discontinuità del saṃsāra

Abbreviazioni

AN: Aṅguttara Nikāya;
It: Itivuttaka;
MN: Majjhima Nikāya;
SN: Saṃyutta Nikāya;
Sn: Sutta Nipāta;
Vism: Visuddhimagga;  
PTS: Pali Text Society.

Introduzione

I risultati di recenti ricerche (Perrone 2023a) sul saññāvedayitanirodha (nirodha per semplicità)[2] evidenziano come questo singolare conseguimento meditativo si trovi in stretto rapporto col nibbāna, in particolare con quello cosiddetto “senza resto” (anupādisesa), di cui rappresenta la maggiore approssimazione conseguibile in vita. Questa forma di nibbāna deve il suo nome al fatto che vi mancano quei cinque “cumuli” (khandha) che nel loro assieme dinamico e interattivo costituiscono la persona (puggala) o, se si vuole, quei cinque costituenti empirici che cooperando fondano la “personalità” (sakkāya)[3]. Il presente contributo intende connettere il saññāvedayitanirodha ad un verso del Sn (v. 766, PTS 147), contenuto nel Dvayatānupassanā-sutta[4], in cui si afferma che i nobili, controcorrente, vedano con favore la cessazione proprio della personalità: passaggio di primo acchito sibillino, ma il cui senso viene elucidato dal relativo commentario, dissipando ogni dubbio esegetico, come vedremo. Contestualmente, mostreremo come il nirodha costituisca anche una temporanea interruzione del flusso generalmente continuo del saṃsāra.

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“Tutto questo è irreale”: nichilismo nel Suttanipāta? (pt. 2)

Ancora sulla vacuità

Ritorniamo ora al tema della contemplazione della vacuità: nella tradizione theravāda, il concetto di vacuità (suññatā) corrisponde a quello di non-sé (anattā), vale a dire la mancanza di un principio identitario immutabile, indipendente ed essenziale nella costituzione psicofisica umana. Nel suo Visuddhimagga (XX, 91; XXII, 117), Buddhaghosa è chiaro: la contemplazione della vacuità è la stessa cosa della contemplazione del non-sé. La nozione di vacuità è stata profondamente elaborata dal Mahāyāna, che ne elenca diverse forme (Williams 2002: 127-128), come del resto avviene anche nel Canone pāli: il Paṭisambhidāmagga (II d.C. ca., von Hinüber 1996: 60) ha un intero capitolo, intitolato Suññakathā, in cui del vuoto si fa un’analisi sistematica (caso unico nel Canone pāli)[1], com’è tipico dello spirito indiano, meticolosamente classificatorio, e in modo particolare della scolastica buddhista, di cui il Paṭisambhidāmagga fa parte, sebbene non sia stato incluso nell’Abhidhammapiṭaka. Ciò verosimilmente per il fatto di essere stato composto tardivamente, quando il canestro dell’Abhidhamma era già stato chiuso (von Hinüber 1996: 59-60), a differenza del Khuddakanikāya, più a lungo rimasto aperto e tale, dunque, da poter accogliere anche opere seriori.

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“Tutto questo è irreale”: nichilismo nel Suttanipāta? (pt. 1)

Abbreviazioni:
AN: Aṅguttara Nikāya;
Dhp: Dhammapada;
Iti: Itivuttaka;
MN: Majjhima Nikāya;
PTS: Pali Text Society;
SN: Saṃyutta Nikāya;
Sn: Sutta Nipāta;
Ud: Udāna;
Vism: Visuddhimagga.

Introduzione

Al principio del Sn si trova l’Uraga-sutta, il sutta del serpente, dove viene ripetuta un’affermazione forte, ovvero “tutto questo è irreale” (sabbaṃ vitatham idaṃ, PTS 2), secondo le traduzioni di Vincenzo Talamo (2019: 206) e Bhikkhu Bodhi (“all this is unreal”; 2017: 158).

L’interpretazione commentariale

Ora, come interpretare questa sentenza? Prima facie, si potrebbe pensare che essa autorizzi un’interpretazione schiettamente nichilista, benché asserire che qualcosa sia irreale non implica necessariamente che non esista; in ogni caso, siffatta lettura è smentita inequivocabilmente dal commentario al Sn, la Paramatthajotikā (II) attribuita a Buddhaghosa (V d.C.). Questo testo fornisce una glossa puntuale al testo radice: sabbaṃ viene dunque chiosato con anavasesaṃ, “senza resto”, “senza eccezione”, e sakalam anūnaṃ, “intero, non mancante di nulla”. Tuttavia, precisa il commentario, qui con sabba s’intendono soltanto le cose condizionate (saṅkhatam eva) atte alla visione profonda (vipassanupagaṃ), del tipo di mondani aggregati, basi sensoriali ed elementi (lokiyakhandhāyatanadhātuppabhedaṃ) (PTS 1.21).

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Essere senza mente: il saññāvedayitanirodha nei Nikāya e nel Visuddhimagga (pt. 4)

2.8. Saṃjñāvedayitanirodhasamāpatti e prajñāpāramitāsūtra

Merita almeno un accenno l’ipotesi avanzata da Bronkhorst, secondo cui quella che Westerhoff (2018: 136) ha chiamato “dottrina illusionistica”, in riferimento all’insegnamento capitale dei Prajñāpāramitāsūtra (“Discorsi della perfezione della gnosi”), originerebbe non tanto da lunghi e complessi ragionamenti filosofici, ma da profondi stati di concentrazione (samādhi) e dalle intuizioni che ne proverrebbero (Westerhoff 2018: 180; Franco 2009: 14): in particolare, Bronkhorst sostiene che la dottrina centrale di questi sūtra dipenda proprio dalla saṃjñāvedayitanirodhasamāpatti (“attainment of cessation of ideation and feeling”). Con le sue parole (2009: 127), “the Mahāyāna doctrine of the illusory nature of the world could be the ontological equivalent of this state, now understood to be the experience of the unreal nature of the phenomenal world”. Poiché in questo stato nulla più si manifesta alla coscienza, questa stessa cessando, la conclusione che ne deriva è che il mondo fenomenico – fino nelle sue componenti irriducibili, i dharma – è fondamentalmente insostanziale e in definitiva irreale. Con la scomparsa dell’attività cognitiva, responsabile dell’apparizione del mondo, questo stesso viene a cessare, rivelandosi vuoto e simile a uno spettacolo di magia o a un sogno. Non è improbabile che almeno in parte i sūtra della Prajñāpāramitā possano aver avuto origine dal samādhi, in particolare da una “generalization of the meditative ‘experience’ in the nirodhasamāpatti” (Franco 2009: 14), anche se in alcuni casi il riferimento a particolari esperienze contemplative o visionarie potrebbe essere una finzione letteraria finalizzata a provvedere di maggiore credito i contenuti dottrinali da comunicare.

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Essere senza mente: il saññāvedayitanirodha nei Nikāya e nel Visuddhimagga (pt. 3)

2.6. Alcune problematiche poste dal nirodha

A questo punto, una questione che si pone è come possa darsi l’emersione dal nirodha se in esso si verifica la (temporanea) interruzione del “flusso di coscienza” (citta-santāna), composto da unità cognitive momentanee date dalla coscienza (citta) e dai suoi concomitanti (cetasika). Come può avere effetto la precedente risoluzione di uscirne dopo un certo lasso di tempo? Inoltre, se nel nirodha non c’è cognizione del mondo esterno, come lascia bene intendere la storia del monaco Mahānāga riferita da Buddhaghosa, il praticante come fa a rendersi conto quando la comunità ha bisogno di lui? Come fa a sapere quando il maestro lo convoca, se, come dice Arbel (2004: 34), “there are no external or mental stimuli which impinge on the mind or the body of a person who is in this state”? Nella tradizione Yogācāra la nozione di “coscienza deposito” (ālayavijñāna) fornisce una risposta alla questione di come la coscienza ordinaria possa riprendere dopo l’ingresso e la permanenza nel saṃjñāvedayitanirodha (Bronkhorst 2009: 160; Westerhoff 2018: 180; Griffiths 1983: 390), mentre la nozione in qualche misura similare di bhavaṅga, elaborata dalla scolastica theravāda, non è stata da questa adoprata a tale scopo esplicativo (Griffiths 1986: 39), probabilmente perché nella concezione theravāda del nirodha anche il “continuum mentale subliminale” è inteso cessare. Come, dunque, dalla prospettiva di questa scuola, si ritorni ad una condizione psicologica normale non è chiaro. Ritenere che sia la precedente “risoluzione” (adhiṭṭhāna) a consentire ciò è un’insoddisfacente ipotesi, poiché la risoluzione rientrerebbe nei cetasika, detti esplicitamente essere assenti nel saññāvedayitanirodha, secondo la definizione che se ne dà in Vism XXIII, 18. Il problema è stato rilevato da più d’uno studioso (Westerhoff 2018: 180; Griffiths 1990: 81; Hayashi 2014: 88), ma nessuno sinora è stato in grado di fornirvi una soluzione plausibile e coerentemente ammissibile in base alla tradizione Theravāda[1]. I termini della questione sono stati ben enunciati da Bronkhorst:

Mental dharmas normally succeed each other in a continuous sequence, the current mental dharma acting as the primary cause for the next one. After an interruption like the attainment of cessation, there are no mental dharmas that could produce succeeding ones. Nevertheless, the ancient discourses proclaim that it is  possible to return from the attainment of cessation.

Bronkhorst 2009: 159
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Essere senza mente: il saññāvedayitanirodha nei Nikāya e nel Visuddhimagga (pt. 2)

2.3. Nirodha e inibizione del processo respiratorio

Per ragioni non specificate ma facilmente immaginabili, come per es. l’impossibilità di resistere a lungo senza bere, potrebbe darsi che nel nirodha non sia possibile permanere oltre sette giorni, ma ciò vorrebbe dire, prendendo sul serio il Visuddhimagga e il Cūḷavedalla-sutta, rimanere per diversi giorni consecutivi in apnea, giacché il processo della respirazione ivi dicesi sospeso nella “cessazione”. In particolare, l’espirazione e l’inspirazione “non sono presenti nel ventre materno, in chi è immerso nell’acqua, né nelle entità prive di percezione, nei morti, in quelli che hanno raggiunto il quarto jhāna, in chi è nel divenire della forma o senza forma, in chi ha raggiunto la cessazione” (Vism VIII, 209, corsivo mio).

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Essere senza mente: il saññāvedayitanirodha nei Nikāya e nel Visuddhimagga (pt. 1)


Abbreviazioni
DN: Dīgha Nikāya;
MN: Majjhima Nikāya;
SN: Saṃyutta Nikāya;
AN: Aṅguttara Nikāya;
Vism: Visuddhimagga;
PTS: Pali Text Society.

1. Introduzione

Al culmine della successione di quegli stati alterati di coscienza vieppiù profondi e sottili che sono i jhāna, si trova un singolare stato noto, in lingua pāli, come saññāvedayitanirodha ovvero, in un numero nettamente minore di occorrenze, nirodha-samāpatti. Se la traduzione di quest’ultimo termine non pone particolari problemi, potendo esso essere reso semplicemente come “ottenimento della cessazione”, la resa del primo non è invece altrettanto univoca. Il composto saññāvedayitanirodha viene comunemente tradotto come “cessazione di percezioni e sensazioni”; senonché, il sostantivo femminile saññā significa “percezione”, “riconoscimento”, ma può anche essere reso come “nozione”, mentre vedayita – participio passato del verbo vedeti, che può essere tradotto sia come “conoscere” che come “sperimentare” – alla lettera possiede il significato di “ciò che è sperimentato/conosciuto” e può dunque rendersi come “esperienza”. Mettendo assieme il significato dei due termini, saññāvedayitanirodha potrebbe dunque essere tradotto in modo egualmente corretto come “cessazione di nozioni ed esperienza”. Ma le possibilità interpretative non terminano qui: infatti, Norman (1997: 27) ha osservato che, benché il composto saññāvedayita sia in genere interpretato come dvandva, ossia un composto copulativo, esso potrebbe nondimeno essere interpretato come tatpuruṣa, ossia un composto determinativo, e il participio passato vedayita adoprato come nome d’azione, cosicché il significato di saññāvedayitanirodha sarebbe “cessation of the feeling of perceptions”.

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