Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot


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Scolio XXI

> di Luca Ormelli

La violenza spesso ristagna tagliente nelle espressioni all’apparenza più innocue. “Cittadino del mondo” ripetono in contrappunto le anime che si vogliono semplici ma avvertite; non si avvedono che, così facendo, strappano con l’inganno a quella natura che tanto rispettano la sua ultima potestà: l’essere cioè compiutamente tirannica.


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Scolio XIX

> di Luca Ormelli

La filosofia che nasce urbana è una filosofia viziata; somiglia a quei frutti che catturano la vista anziché il gusto tanto sono irrealmente privi di imperfezioni. La filosofia, quando nasce autentica, è sempre una filosofia della natura, περι φυσεως.


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Scolio XVII

> di Luca Ormelli

Insito nella rappresentazione è irriducibile l’errore: ogni rappresentazione è, invero, un essere-in-vece-di, un costituire relazione. Pure ciascuna relazione in sé non è altro che l’attuarsi d’una assenza di autonomia, una costante manifestazione di insufficienza, di mancanza. Il dolore pertanto scaturisce, prorompe dall’inestinguibile sentimento di privazione, di frammentazione dell’unità originaria [dolere origina dal latino dolere da riferirsi alla radice dar=dal, dol spezzare, scindere ravvisabile anche nel sanscrito darati e dalati scoppiare, lacerare, fendersi e nel greco dero scorticare] che si vuole ognora sanata in una nuova unità. Senza avvedersi l’uomo che è proprio nella volontà di unire ciò che il dio ha diviso che alberga il dolore. E dunque volere la lacerazione, aspirare alla scissione, protendersi alla totalità conoscendo irraggiungibile – perduta – ogni unità.


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Bolaño prossimo mio

> di Luca Ormelli

«Bisogna essere un abisso, un filosofo… Abbiamo tutti paura della verità…» [1]

Scrivere – afferma Eduardo Lago – «è avvicinarsi all’abisso. Per Bolaño “l’alta letteratura, quella che scrivono i veri poeti, è quella che osa addentrarsi nell’oscurità con gli occhi aperti, succeda quello che deve succedere”. Scrivere: addentrarsi nell’inferno; la letteratura è “un lavoro pericoloso”. Pericoloso perché decifrare l’enigma dell’esistenza implica scontrarsi in termini assoluti con il Male e la Morte» [Eduardo Lago, “Sete del male“].

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Scolio III

> di Luca Ormelli

L’uomo sosta, sospeso tra splendore e sgomento. Per colui che cammina sopra un ponte la vita si manifesta come sentiero obbligato: a monte la meraviglia, a valle la costernazione. Si dà una scelta di principio: muovere o restare? E lungo il cammino, dove gettare lo sguardo? “E'” lo sguardo che inizia alla scelta. Nello sguardo che abbraccia e raccoglie la vita originaria si dà, unica, la compresenza della vita nella sua intuita, in-differente antinomia: il fulgore delle vette e l’orrore dell’abisso. Pure quando “è” in cammino pende ognuno di noi secondo intima inclinazione ed inclina allorquando asseconda o contrasta il vento. Ma una sola “è” la parte del nostro orizzonte che ci “è” dato esperire, sia essa lo smarrimento o lo stupore. Dell’altra parte che “è” sempre possibile e nondimeno esclusiva portiamo il fatale peso della memoria, di quella molteplicità che “è” solo in quanto possibile, un possibile non percorribile, memoria della scelta originaria. “E'” infatti la rappresentazione del “vero” che ci configuriamo a costituire ed informare il giudizio che del “reale” abbiamo e non il suo dato sensibile.