Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot


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Difendere Heidegger: Filosofia, linguaggio e ideologia oltre la caricatura critica

La recente critica rivolta da Alfonso Berardinelli a Martin Heidegger, pubblicata su queste colonne il 22 settembre, rappresenta l’ennesimo esempio di come il dibattito filosofico possa scivolare nella semplificazione polemica, fino a trascurare del tutto la complessità concettuale dell’autore preso di mira. Heidegger non è un pensatore che si possa liquidare con una stroncatura giornalistica, né per il suo stile, né per le sue scelte biografiche, né tantomeno per la profondità della sua proposta filosofica. Muovere una critica a un autore come Heidegger senza riconoscere la densità del suo linguaggio, la radicalità della sua ricerca, e la coerenza interna del suo pensiero, significa ridurre la filosofia a spettacolo polemico. In risposta, è dunque necessario operare alcune puntualizzazioni — non in difesa ideologica, ma in nome di un’analisi rigorosa.

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Pensare il Diritto: tra filosofia e scienza giuridica

Che cos’è il diritto? È una domanda apparentemente semplice, eppure radicalmente complessa. Dietro di essa si cela un intero orizzonte epistemologico e culturale che attraversa secoli di pensiero. Di fronte a questa domanda, la filosofia e la scienza del diritto offrono risposte diverse, mosse da posture cognitive e metodologiche profondamente distinte. Se la scienza giuridica analizza il diritto come fatto e fenomeno sociale, la filosofia del diritto si interroga sul suo senso, sulla sua giustizia, sulla sua necessità. Due approcci, due sguardi, un oggetto comune: il diritto come espressione ordinatrice della vita collettiva.

Per comprendere la diversità tra filosofia del diritto e scienza giuridica è indispensabile partire da una più generale distinzione tra filosofia e scienza. Come ha osservato Martin Heidegger, “la scienza calcola, la filosofia pensa”. La scienza moderna — in particolare quella di impianto sperimentale — osserva la realtà, la seziona, la descrive in base a parametri misurabili: estensione, movimento, funzione, struttura. Il suo sapere è empirico e descrittivo, orientato alla spiegazione causale e verificabile dei fenomeni.

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Gramsci e Marinetti: un confronto tra due pensieri

Il futurismo è stato con molta probabilità il movimento letterario, artistico e culturale[2] più importante e significativo che l’Italia ha prodotto nell’intero Novecento. Il futurismo non è stato un movimento d’avanguardia circoscritto soltanto all’ambito letterario, ma con una quantità smisurata di manifesti, appelli e conferenze, ha proposto nuove e mai esplorate strade per tutte le arti, ha avuto una chiara posizione politica[3], ha cercato di stabilire una sua morale e un nuovo senso del vivere. Tra i manifesti futuristi più significativi, dov’è proprio stabilito cosa vuol dire essere futurista, vi è quello di Filippo Tommaso Marinetti pubblicato su «Le Figaro» nel 1909. Di seguito riportiamo alcune delle parti salienti del testo:

«Avevamo vegliato tutta la notte – i miei amici ed io – sotto lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestata su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia, discutendo davanti ai confini estremi della logica ed annerendo molta carta di frenetiche scritture.
Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli, in quell’ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all’esercito delle stelle nemiche, occhieggianti dai loro celesti accampamenti. Soli coi fuochisti che si agitano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle locomotive lanciate a folle corsa…
Allora, col volto coperto dalla buona melma delle officine – impasto di scorie metalliche, di sudori inutili, di fuliggini celesti – noi, contusi e fasciate le braccia ma impavidi, dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra.

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Il linguaggio in Hegel

Hegel a differenza di molti autori che lo hanno preceduto non affrontò mai direttamente la questione legata all’origine del linguaggio. C’è però da dire che nelle sue opere egli lascia trapelare una sua idea senza però cadere nella querelle relativa alla nascita del linguaggio come dono divino o come frutto dell’evoluzione umana. In Italia le due autrici che meglio hanno affrontato questo tema sono Lucia Ziglioli[2] e Caterina De Bortoli[3].

Hegel parte dal presupposto che l’uomo essendo un essere razionale sia sempre stato dotato di linguaggio. Secondo il filosofo non è neanche corretto concepire il linguaggio come un mezzo inventato per uno scopo, poiché così lo si andrebbe a ridurre a mero strumento. Il dibattito sull’origine del linguaggio è in realtà uno pseudo-problema che concepisce il linguaggio stesso come sistema chiuso, isolabile dall’evoluzione dell’umanità[4]. Bisogna invece pensare al luogo del linguaggio: «il segno ed il linguaggio sono inseriti da qualche parte, a mo’ di appendici, nella psicologia o ancora nella logica, senza che si sia pensato alla loro necessità e alla loro connessione nel sistema dell’attività dell’intelligenza»[5]. Il linguaggio può trovare il suo fondamento solo se studiato all’interno dell’intelligenza, è proprio quest’ultima a far si che i segni si connettano tra loro e possano avere un senso compiuto. Nella concezione hegeliana del linguaggio, esso ha senso solo all’interno della sua funzione determinata che spinge l’intelligenza alla conoscenza.

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 Giuseppe Parini e le influenze filosofiche di Pope

Quale rapporto ebbe Giuseppe Parini con la felicità e soprattutto scrisse mai su tale tema? Parini non dedicò mai un’opera specifica a tale tema, né a tale argomento dedicò uno spazio programmatico. Nonostante questo quella della felicità è una tematica che attraversa tutta l’opera pariniana. Per comprendere il perché di tale trattazione è opportuno contestualizzare l’Intellettuale. L’Europa occidentale del Settecento ereditò dai secoli precedenti una lunga speculazione, ormai scevra dalle sole Sacre Scritture, sulla felicità terrena, ma anche sul dolore e il piacere. Dall’altra parte visse la temperie illuministica tutta concentrata sulla contrapposizione tra ragione e passione in una dialettica derivante dall’opposizione tra ragione e natura. Le riflessioni di alcuni intellettuali italiani, Verri su tutti, hanno portato all’assorbimento del concetto di felicità in quello di piacere (P. Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, a cura di S. Contarini, Roma, Carocci, “001, p. 135; N. Valeri, Pietro Verri, Firenze, F. Le Monnier, 1969, p. 23). Dunque, si sviluppa un pensiero critico nei confronti del piacere che va direttamente a condannare anche la ricerca della felicità con una conseguente esaltazione della sofferenza tanto cara al romanticismo.

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La filosofia di Blondel

Di Riccardo Renzi[1] e Federico Renzi

Da sempre la filosofia si interroga sulle questioni di amore, essere e conoscenza. Risulta utile per addentrarci in tale tema la riflessione condotta dal filosofo Virgilio Melchiorre in Metacritica dell’eros: «In che modo l’eros ha a che fare con l’essere? La storia della filosofia potrebbe essere trascritta, in buona parte, come discorso sull’amore, da Anassimandro ed Empedocle sino a Platone e al neoplatonismo, da Agostino alle scuole italiane del rinascimento, da Spinoza alle diverse scuole romantiche sino a Hegel, a Kierkegaard, a Schopenhauer o, per venire a noi, sino alle vie più diverse del pensiero contemporaneo, si tratti in positivo o in negativo della riflessione esistenziale o si tratti della filosofia di Max Scheler, di Martin Buber e via dicendo»[2]. Dunque, stando al Filosofo, la riflessione sul rapporto eros-essere risulta un punto di snodo obbligato di tutte le correnti filosofiche. Nelle pagine seguenti Melchiorre porta l’attenzione sulla riflessione condotta da Maurice Blondel[3]. La riflessione ontologica blondeliana conduce il lettore in una sorta di attuazione della metafisica alla seconda potenza, nella quale la carità è il fondamento dell’Universo. Dunque, partendo da tale prospettiva, la domanda che è necessario porsi è come l’essere ci parla dell’amore? Prima di addentraci nella riflessione è opportuna una digressione su Blondel e la sua filosofia.

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Italo Calvino e la soluzione contro la globalizzazione

Molto spesso la letteratura si è trovata a bruciare le tappe dello sviluppo tecnologico e a prevedere con lungimiranza i disastrosi risvolti di una tecnologia che si sviluppa ed evolve senza freni. Gli scrittori, proprio grazie al loro essere spesso dei “vate” e alla loro innata lungimiranza del fantastico possibile, riescono ad esplorare il tempo presente andando poi a concepire futuri realizzabili. Italo Calvino fu uno di questi cantori visionari, audaci, camaleontici e multiformi. Egli ha dimostrato ampliamente di essere un attento e agile lettore della realtà sia nei romanzi, che nella saggistica meno nota a un pubblico di non esperti. Fin dagli esordi, Calvino si rese conto che stava vivendo un’epoca di forti cambiamenti, spesso violenti e inafferrabili sul momento. Il mondo contemporaneo per Calvino è fin troppo cangiante e spesso risulta complicato e complesso. Lo scrittore in risposta alla violenza del mondo contemporaneo trova un suo modo di fare letteratura: non commette l’errore di molti suoi contemporanei, quello di illustrare solo i pericoli di quell’evoluzione irrefrenabile e inarrestabile, ma cerca ed offre anche soluzioni[2].

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