Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Il concetto d’intelligenza nella teologia medievale

1 Commento

Parlare d’intelligenza, o meglio del suo concetto nel Medioevo, non è cosa semplice, poiché l’articolazione di tale pensiero è completamente diversa da quella odierna e muove dai dettami della scolastica. Per comprendere meglio tutto ciò è bene far iniziare il nostro percorso proprio da quella luce dantesca. Con la Commedia, Dante ci accompagna in quel suo personale viaggio mistico-filosofico che tutta la antichità ha, più o meno segretamente e variamente, indicato e visto: è il viaggio che ci è mostrato da Omero nella Odissea e che porta l’eroe al rinvenimento della Casa (Itaca)[2], è la “la conversione, la resurrezione” cui ha invitato Gesù, è il “passeggiare con Jhwh” ovvero il vedere un divino che è il vedersi nel divino. Dunque, non è possibile concepire l’opera dantesca senza quel supporto teologico su cui essa si fonda. A tal proposito ci sovviene in aito il passo del saggio di Nino Borsellino, Ritratto di Dante (1998): «Per Boccaccio Dante ha pari diritto a più titoli. Lo ricorda nella Vita (§ 2): “E di tanti e sì fatti studi non ingiustamente meritò altissimi titoli; però che alcuni il chiamarono sempre poeta, altri filosofo, e molti teologo, mentre visse”. Ma è certo che dei tre solo il titolo di poeta può interamente soddisfare, e non perché ripudi gli altri, ma perché solo esso li comprende tutti., mentre gli altri non definiscono che se stessi»[3].

Assegnare al Sommo Poeta la qualifica di teologo non vuol dire attribuire ai suoi studi un carattere specialistico, tale da considerarlo un intellettuale di mestiere: un maestro con il prestigioso diritto di occupare un insegnamento[4]. Dante, diremmo oggi, pur essendo ben nutrito di filosofia e teologia, non è un tecnico della materia. Il Poeta è però un assiduo frequentatore degli studi del convento francescano di Santa Croce e di quello domenicano di Santa Maria Novella (Dante, Convivio, II, XII): «E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti; sì che in picciolo tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire della sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero»[5]. Tale assidua frequentazione permise al Poeta un notevole arricchimento culturale: le letture dei Dottori e dei Padri della Chiesa[6]; i grandi della letteratura greca e latina, Aristotele (soprattutto l’Aristotele dell’Etica, ma anche l’Aristotele mediato dagli Arabi e l’Aristotele riproposto dalla scolastica), Virgilio, Cicerone, Stazio, Boezio, Svetonio, Anneo Floro, Tito Livio[7]; le letture delle Sacre Scritture, le conoscenze di Agostino, Alberto Magno[8], di Tommaso e Bonaventura. Inoltre Dante poté approfondire le sue conoscenze grazie alle tante lezioni e dispute tenute dai più grandi teologi e biblisti dell’epoca che operavano proprio presso i due conventi fiorentini[9]. Tra questi vi erano: i francescani Ubertino da Casale[10] e Pietro di Giovanni Olivi[11] e il tomista Remigio de’ Girolami[12].

A questo punto potremmo definire Dante un teologo, ma nell’accezione ante litteram di libero intellettuale, egli infatti, non è espressione di alcuna “scuola”, né aderisce ad alcun specifico indirizzo. La teologia di Dante, come scrive il grande dantista del primo Novecento, Giovanni Getto, non è riconducibile a nessun sistema codificato: «sullo spirito del poeta opera il fascino di un’imponente tradizione teologica che va dalla Scrittura e dai Padri della Scolastica alla mistica […]. Come ogni teologo, pur aderendo alla teologia dogmatica definita e pur accettando nel suo insieme tutto il complesso di articoli di fede che la Chiesa propone, si presenta sempre con una personale teologia, nel senso che egli sarà tratto spontaneamente ad insistere nella sua meditazione su un dogma piuttosto che su di un altro e ad istituire fra essi nuovi rapporti»[13]. A tal proposito risulta assai interessante la testimonianza Sigieri di Brabante posto tra gli spiriti liberi nel Paradiso (Par. X, vv. 133-138):

«Questi onde a me ritorna il mio riguardo,

è ‘lume d’uno spirto che ‘pensieri

grave a morir li parve venir tardo:

essa è la luce etterna di Sigieri,

che, leggendo nel Vico de lo Strami,

sillogizzò invidiosi veri»[14].   

Da ultimo definire il Sommo Poeta teologo esige richiamare l’attenzione sulla stessa dimensione dottrinale e culturale della sua teologia il cui nutrimento non si esaurisce con il solo Tomismo scolastico, ma si arricchisce dell’agostinismo francescano. La teologia dantesca non è dunque una teologia pienamente dottrinale, ricolma di tecnicismi, ma una teologia in cui vi è una compenetrazione tra il sapere e il contemplare. Diremmo oggi che la teologia del Sommo Poeta è dettata dal sapere e dalle esperienze di vita, ove la ratio del domenicano Tommaso d’Aquino si affianca l’esprit di Bernardo di Chiaravalle[15]. La teologia per Dante non è solo un modus cognitionis, ma una vera e propria esperienza di vita, come gli era stato chiaramente indicato da Bernardo.

Il Sommo Poeta, Dante Alighieri, è per eccellenza da considerare il poeta dell’intelligenza, così venne infatti definito dal filologo italiano Giovanni Getto: «la poesia di Dante è poesia dell’intelligenza, poesia in sostanza che si nutre di quei sentimenti che intorno alla esperienza intellettuale, appassionatamente realizzata, si generano e vivono»[16]. Il concetto di intelligenza dantesca si presenta come una medaglia a doppia faccia, la faccia buona, quella che va a concretizzarsi con ascesa del Poeta Paradiso, che però va a contrapporsi a quella cattiva, cioè quella di Ulisse e i suoi compagni[17]. L’intelligenza è per Dante il connotato che per eccellenza distingue l’uomo dalla bestia. Tale termine va però contestualizzato, esso, infatti, era ampiamente utilizzato nella filosofia Duecentesca e il Sommo Poeta nella Comedia con esso si riferisce principalmente alle intelligenze angeliche. Tale termine lo si trova anche nel Convivio (II) dove indica le intelligenze motrici, cioè quelle angeliche della tradizione ebraico-cristiana. Nel Convivio (II, IV 2 e seguenti) il Poeta cerca di fornire al lettore un’articolata definizione di intelligenza mettendone in evidenza il loro carattere di sostanze separate da materia. La definizione si articola secondo il classico ragionamento della scolastica: «È adunque da sapere primamente che li movitori di quelli [cieli] sono sustanze separate da materia, cioè intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli. E di queste creature, sì come de li cieli, diversi diversamente hanno sentito, avvegna che la veritade sia trovata. 3. Furono certi filosofi, de’ quali pare essere Aristotile ne la sua Metafisica[18], che credettero solamente essere tante queste, quante circulazioni fossero ne li cieli, e non più: dicendo che l’altre sarebbero state etternalmente indarno, sanza operazione; ch’era impossibile, con ciò sia cosa che loro essere sia loro operazione»[19].

Dante illustra poi come tali intelligenze svolgano il loro compito di principi motori dei cieli. Il Poeta spiega che la virtù divina discende dal Primo Agente alle cose generate, per il tramite appunto delle intelligenze: «Ove è da sapere che discender la virtude d’una cosa in altra non è altro che ridurre quella in sua similitudine, sì come ne li agenti naturali vedemo manifestamente; che, discendendo la loro virtù ne le pazienti cose, recano quelle a loro similitudine, tanto quanto possibili sono a venire ad essa»[20]. Continua poi: «Onde vedemo lo sole che, discendendo lo raggio suo qua giù, reduce le cose a sua similitudine di lume, quanto esse per loro disposizione possono da la [sua] virtude lume ricevere. Così dico che Dio questo amore a sua similitudine reduce, quanto esso è possibile a lui assimigliarsi. E ponsi la qualitade de la reduzione, dicendo: Sì come face in angelo che ’l vede. 4. Ove ancora è da sapere che lo primo agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per modo di diritto raggio, e in cose per modo di splendore reverberato; onde ne le Intelligenze raggia la divina luce sanza mezzo, ne l’altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate. 5. Ma però che qui è fatta menzione di luce e di splendore, a perfetto intendimento mostrerò [la] differenza di questi vocabuli, secondo che Avicenna sente. Dico che l’usanza de’ filosofi è di chiamare ‘luce’ lo lume, in quanto esso è nel suo fontale principio; di chiamare ‘raggio’, in quanto esso è per lo mezzo, dal principio al primo corpo dove si termina; di chiamare ‘splendore’, in quanto esso è in altra parte alluminata ripercosso»[21].

Le parole dantesche molto mutuano dall’opera dello pseudo-aristotelico, Liber de causis, già presente in vari codici manoscritti del XIII e citata da Alberto Magno e Tommaso D’Aquino[22].  Cerchiamo ora di capire cos’è il Liber de causis. Brevemente si può dire che è un elenco di proposizioni a carattere filosofico e teologico, realizzato nel circolo filosofico di al-Kindi intorno alla metà del IX secolo. Per molti secoli fu erroneamente attribuito ad Aristotele. Fu tradotto in latino da Gerardo da Cremona nel 1180. Il primo a contestarne l’errata attribuzione fu Tommaso D’Aquino. Il modello di un edificio sistematico del sapere che iniziava dalla logica e si concludeva con la metafisica, articolata in scienza delle cause prime e supreme, e teologia razionale della processione dell’universo dall’Uno, la quale rivendicava il carattere di scienza dimostrativa, si era così tanto affermato nei secoli che le contestazioni di Averroè e di Tommaso non impedirono che si continuasse a leggere e commentare questo testo[23]. Dopo la chiusura delle scuole filosofiche di Atene nel 529, il pensiero di Aristotele venne in parte trascurato dall’occidente latino, ma venne conservato nei monasteri grazie ai monaci ed in Mesopotamia e Siria grazie all’opera di traduzione delle sue opere dal greco in arabo per lo più per opera dei cristiani nestoriani. I compilatori siriani e persiani però inserirono nel catalogo delle opere di Aristotele due opere apocrife di stampo neoplatonico, il Liber de causis e La teologia di Aristotele, tratto dalle Enneadi di Plotino. Citato per la prima volta da Alano di Lilla, fu considerato opera di Aristotele fino al 1268, quando Guglielmo di Moerbeke tradusse l’Elementatio Theologica di Proclo, e Tommaso scoprì esserne questa la fonte immediata. Tratta dell’ordine gerarchico delle cause, a partire dalla prima, anteriore all’eternità, all’essere stesso e, di conseguenza, all’intelligibile. La causa prima risulta dunque indefinibile, ma la si può chiamare Bene, o Uno. Tutto ciò che non è Bene/Uno è molteplice: la prima di queste cose create è l’essere, seguito da un’Intelligenza pura, che è piena di forme intelligibili. Ogni anima che ne discende possiede dunque naturalmente in sé i sensibili, poiché è piena delle loro forme.

Dopo questa breve digressione sul Liber de causis, tornando al passo dantesco precedentemente citato, esso dimostra come il Poeta concepisca le intelligenze come pure forme immateriali e intellettive intermediarie tra il Dio creatore e l’ordine delle cose mondane. Nel mondo dantesco tutto è messo in moto dall’intelligenza che a cascata partendo da Dio giunge sino agli uomini, rendendoli razionali e distinguendoli dalle bestie. Le intelligenze conoscono la ‛ forma ‘ umana in due modi diversi, e anzitutto in sé stesse, in quanto conoscono Dio come cagione o causa ‛ universalissima ‘ di tutte le cose. Tutto origina dalla luce divina, la quale è causa del loro essere, permette loro infatti di scorgere in quella stessa luce la «forma generale» e la stessa essenza umana. Tale modalità di conoscenza è proprio di tutte le essenze separate e non soltanto delle intelligenze motrici. Queste ultime conoscono la forma umana in maniera particolare in quanto sono «spezialissime cagioni di quella», e cioè in quanto contribuiscono, come cause intermediarie, all’opera della causa divina[24]. Nella concezione dantesca tutto è conseguenza della luce divina che irradia il creato. L’intelligenza quindi non è più solamente la naturale spinta alla conoscenza, ma nel suo aspetto più profondo e fondamentale è la capacità di accettare i limiti umani, i limiti dell’intelligenza umana, per affidarsi a quella divina. Nella concezione cristiana l’intelligenza porta l’uomo a riconoscere i propri limiti davanti al divino, mentre in quella pagana, si pensi ad Ulisse, lo porta a sfidare gli dei. Dante riconosce i propri limiti, i limiti dell’umano, così infatti è riportato nell’ultimo canto del Paradiso:

«non eran da ciò le proprie penne

se non che la mia mente fu percossa

da un fulgore in che sua voglia venne.

A l’alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgeva il mio disio e ’l velle,

sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle».

Il Sommo Poeta è pienamente conscio dell’insufficienza del suo intelletto/”penne” e infatti non è grazie a questo che può soddisfare il suo desiderio, ma grazie ad «un fulgore», un’indefinita luce potentissima che rappresenta l’inconoscibilità e il mistero divino, «l’amor che move il sole e l’altre stelle». Ecco che ritorna quella luce pregna d’intelligenza che tutto irradia e tutto muove.

Il continuo richiamo di Dante al Liber de causis che a sua volta riprende concetti dalla filosofia neoplatonica di Proclo e in particolare dal suo Στοιχείωσις θεολογική, hanno spinto studiosi del calibro di Sauter, Krebs, Nardi e Palgen, a sostenere che Dante abbia mutuato il concetto di intelligenze proprio dalla filosofia neoplatonica, riconoscendovi la presenza determinante di un’idea dell’universo scandita secondo una rigorosa gerarchia di esseri e di cause. La concatenazione come principio basilare dell’Universo è il fondamento proprio della filosofia neoplatonica e in Dante tale concatenazione è data dalla luce divina che si irradia sul tutto il creato. Lo studioso che meglio ha approfondito tale tema è certamente il Nardi, il quale discutendo il significato delle citazioni dantesche del De Causis, ha indicato in esse la testimonianza di «un influsso neoplatonico alimentato anche dalle suggestioni dei commenti albertisti»[25]. Stando a questi studi appare chiaro come Dante indirettamente sia pregno di neoplatonismo.


[1] Istruttore direttivo presso Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo.

[2] G. Munno, L’Ulisse omerico e l’Ulisse dantesco: Da Omero a Dante: Conferenza letta il 23 aprile 1949, Tipografia consorzio nazionale, 1949.

[3] N. Borsellino, Ritratto di Dante, Roma – Bari, Laterza, 2007, p. 21.

[4] È di estrema importanza fare questa precisazione a scapito di spiacevoli equivoci. Nella concezione medioevale esiste solo il teologo specialista, cioè solo colui che è riconosciuto come tale e può liberamente insegnare la materia nelle varie Università. Nel medioevo non esiste la figura dell’intellettuale odierno. Dante, pur essendo riccamente nutrito di filosofia, di teologia e del sapere del suo tempo, non può essere considerato theologus nel senso di un dottore-professore di discorsi teologali.

[5] D. Alighieri, Convivio, a cura di Gianfranco Fioravanti; canzoni a cura di Claudio Giunta, Milano, Mondadori, 2019, p. 43.

[6] L. Pranzetti, Dante: la Divina Commedia tra sacra scrittura, patristica e scolastica, Vol. I, II, III, Civitavecchia, Centro incontri culturali, 2016.

[7] Per Dante e gli autori latini si veda M. Tombolini e R. Renzi, Percorsi di trasmissione: il rapporto tra Dante e gli storici latini, in «Scholia», (2021), anno 23, n. 2, pp. 93-109.

[8] Dante fa spesso riferimento ad Alberto Magno nel Convivio.

[9] Il riferimento è sempre a Santa Maria Novella e Santa Croce.

[10] A. Cocola, Rapporto tra Dante ed Ubertino da Casale, Monteleone, Tipografia Raffaele Rao, 1903, pp. 20-26.

[11] S. Piron, Pietro di Giovanni Olivi e i francescani spirituali, Milano, Biblioteca francescana, 2021, le ultime cento pagine risultano fondamentali per un’adeguata comprensione del fenomeno francescano toscano, culturalmente parlando.

[12] C. Til Davis, Remigio de’ Girolami and Dante: a comparison of their conceptions af peace, in Studi danteschi, vol. 36, (1957), pp. 105-136.

[13] G. Getto, Poesia e teologia nel Paradiso di Dante, Milano, Vita e pensiero, 1944, p. 27.

[14] D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Enrico Malato, Roma, Sellerio, 2018, pp. 753-754.

[15] G. Squilla, S. Bernardo di Chiaravalle: nell’ottavo centenario della sua canonizzazione, in Discorso pronunciato il 22 settembre 1974 a Casamari, (anno 1974).

[16] G. Getto, Aspetti della poesia di Dante, Firenze, Sansoni, 1966, p. 23.

[17] G. Cerri, Dante e Ulisse : un’esegesi medioevale delle testimonianze antiche, in L’antico e la sua eredità : atti del colloquio internazionale di studi in onore di Antonio Garzya, Napoli, M. D’Auria, 2004, pp. 87-134.

[18] Che avvenga che nel primo di Cielo incidentemente paia sentire altrimenti.

[19] Dante Alighieri, Convivio, Trattato II, IV e ss https://digitaldante.columbia.edu/text/library/convivio-italian/#anchor20

[20] Dante Alighieri, Convivio, Trattato III, XIV, https://digitaldante.columbia.edu/text/library/convivio-italian/#anchor47

[21] Ibidem

[22] C. Vasoli, Intelligenzia, in Enciclopedia Dantesca (1970) https://www.treccani.it/enciclopedia/intelligenza_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[23] Si veda: M. A. Alonso, Las fuentes literarias del Liber de causis. Al-Andalus: revista de las escuelas de estudios árabes de Madrid y Granada, (10), 1945, pp. 345-382.

[24] Cfr. per questo Cv IV XXI 5 e 8 e, per l’infusione dell’amore, II VIII 4.

[25] B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, pp. 99-102.

Autore: Riccardo Renzi

Riccardo RENZI (1994) Dopo la laurea triennale in Lettere classiche presso l’Università degli studi di Urbino, discutendo una tesi recante titolo La nobiltà in Francia nei primi due secoli dell’età moderna (febbraio 2017), ha conseguito la Laurea magistrale in Scienze Storiche presso l’Università di Macerata discutendo una tesi dal titolo Latin historian’s manuscripts and incunabola preserved at Fermo Public Library Romolo Spezioli (ottobre 2020). Ha inoltre conseguito una Summer school in metrica e ritmica greca presso la Scuola di metrica dell’Università di Urbino (2016), il percorso psico-pedagogico per l’insegnamento (24 CFU) presso l’Università di Macerata (2019) e i diplomi in LIM e Tablet. Nell’ottobre 2022 consegue il Master di primo livello in “Operatore delle biblioteche”. Ha insegnato materie letterarie presso l’Istituto di Formazione Professionale Artigianelli di Fermo dall’ottobre 2021 al marzo 2023, attualmente, dopo la vittoria del concorso pubblico di categoria D1 presso il IV settore del Comune di Fermo, lavora come Istruttore Direttivo presso la Biblioteca civica Romolo Spezioli di Fermo. È membro dei comitati scientifici e di redazione delle riviste Scholia, Il Polo e Menabò online, è inoltre vicedirettore della rivista Scholia (Didattica) e membro del comitato scientifico del Centro Studi Sallustiani. È inoltre socio dell’Aib, della Società Dantesca Fermana, dell’Unipop di Fermo e dell’Associazione teste di Rapa di Rapagnano. Appassionato di storia greca e romana, e di poesia, ha pubblicato numerose monografie sugli storici latini e alcune sillogi poetiche (Renzi Riccardo, La tradizione delle opere sallustiane dai manoscritti agli incunaboli della Biblioteca civica di Fermo, AndreaLivi Editore, 2020; Renzi Riccardo, Tito Livio. La fortuna del più grande storico romano, Primicieri Editore, 2021; Renzi Riccardo, APPIANO ALESSANDRINO. Dall’età classica all’età contemporanea, Primiceri Editore, 2021; Renzi Riccardo, Rufo Festo Avieno, la fortuna di uno storico minore, Ipazia: collana di antichità classiche, Arbor Sapientiae editore, 2021; Renzi Riccardo, La fortuna di uno storico minore: Lucio Anneo Floro, i manoscritti e gli incunaboli della Biblioteca Civica Romolo Spezioli, con prefazione di Alessandro Cesareo, Amarganta, 2021; Renzi Riccardo, Svetonio. Dall’età classica all’età moderna. Gli esemplari della Biblioteca civica Romolo Spezioli di Fermo, con prefazione di Alessandro Cesareo, Padova, Primiceri, 2022; Renzi Riccardo, Frammenti poetici, BookSprint, 2021; Renzi Riccardo, ἀλήθεια, Sonnino, Edizioni La Gru, 2022; Renzi Riccardo, Studi e riflessioni sull’evoluzione del ceto nobiliare: tra la fine del medioevo e la prima età moderna, Padova, Primiceri, 2022; Renzi Riccardo, Cinque saggi per l’Alighieri, Padova, Primiceri editore, 2023), collabora inoltre con le riviste: «Scholia», «Scholia didattica», «Il Guerrin Meschino», «Storia Libera», «Riscontri», «Il Borghese», «Il Polo», «Marca/Marche», «Inchiostro», «Avanguardia», «Italia medioevale», «Prometeo», «Miscellanea francescana», «Schede Medioevali», «Il Sentiero Francescano», «Civiltà Romana», «Studi Francescani», «Versi diversi», «Poets and Poems», «Italia Francescana», «Voce Romana», «Il Mago di Oz», «L’Altrove – appunti di poesia», «Imperfetta Ellisse», «Il giardino dei poeti», «Artepiù», «Blogdidattico», «Progetto Babele», «Testimoni», «InStoria», «AboutUmbria», «Convivio», «Letteratura e pensiero», «Kenavò», «Ellin Selae», «Globus», «Menabò», «L'Age d'Or», «Nido di Gazza», «Nuova Antologia», «Non credo», «Quaderni de Il Gallo», «Meravigliarsi», «La loggia», «Frascati poesia», «Nuova Euterpe», «Seme anarchico», «Studi Pesaresi», «L’Ottavo», «Filosofia e nuovi sentieri», «Utsanga», «Diacritica», «Libro Aperto», «Il Mangiaparole» e «Terzultima fermata». Ha pubblicato più di 250 articoli, dei quali più di cento in riviste scientifiche e di classe A. I suoi libri sono inoltre recensiti in varie riviste letterarie cartacee e online, tra le quali: Avanguardia, Blog Didattico, Tuttatoscanalibri, Parole Mute, Le Parole di Misaki, La poesia e lo spirito, Il Quotidiano del Sud, Il Borghese, Cronache Fermane e L’Opinionista giornale online.

One thought on “Il concetto d’intelligenza nella teologia medievale

  1. Come si può vedere da questo prezioso articolo, il Medioevo fu un meraviglioso laboratorio per arrivare infine al Rinascimento. Dante fu il Sommo Poeta, che ha espresso in modo artisticamente ingegnoso il concetto del Divino, al quale l’intelligenza umana può avvicinarsi solo con la logica, non con “l’immaginazione” senza uscita, secondo Averroè. Intanto la chiusura della scuola di Atene a Bisanzio si è rivelata antropologicamente spaventosa, da Cipro a Vladivostok. La Russia sta conducendo una guerra in Europa oggi, nel Terzo Millennio. D’altra parte, non per niente il Concilio Vaticano II, storicamente una menta apperta dal Rinascimento, ha trattato i simboli dell’Europa settentrionale e centrale, con meno misticismo nella fede. Il problema, però, è come andranno le cose ai giorni nostri, quando prevalgono le verità dei sensi, invece della Verità di carattere universale, dove Dante così magnificamente spiegò le ali della sua potente, geniale poesia.

Scrivi una risposta a martikorobert Cancella risposta