Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

ALLA RICERCA DELLA COERENZA DEL DIVENIRE: ZENONE DI ELEA

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Abstract: We address Zeno’s paradoxes on motion, in the search for the coherence of becoming, defining step by step a becoming-theory.

Keywords: becoming, Zeno, space, time, paradoxes.

Introduzione

Di Zenone trattiamo 10 principali argomenti: direttamente i quattro principali enigmi sul moto, (a.) Achille (b.) Dicotomia (c.) Freccia (d.) Stadio; indirettamente i sei principali enigmi sul molteplice, (e.) della divisibilità infinita (f.) del grande e piccolo (g.) del limitato e illimitato (h.) dell’uguale e diverso (i.) del chicco di miglio (l.) dello spazio. Secondo la IEP (Internet Encyclopedia of Philosophy), ci sono delle soluzioni standard SS che tentano di affrontarli, anche se alcune sono più controverse che comunemente accettate: (a.b.) per Achille e la Dicotomia, SS impiega il calcolo della serie convergente all’infinito e dell’analisi reale; (c.) per la Freccia, SS impiega la teoria at-at del movimento; (d.) per lo Stadio, SS non è definita; (e.f.) per la divisibilità infinita e per il grande e piccolo, SS impiega l’idea di una grandezza continua composta da punti; (g.) per il limitato e illimitato, SS impiega l’idea che fra due oggetti fisici non necessariamente c’è un terzo oggetto fisico che li separa; (h.) per l’uguale e diverso, SS impiega la soluzione platonica; (i.) per il chicco di miglio, SS impiega il concetto di parti con proprietà diverse dagli insiemi che costituiscono; (l.) per lo spazio, SS impiega la negazione che i luoghi abbiamo luoghi in cui stare.

Dopo una breve nota al pensiero di Zenone, partiamo la nostra. Destinazione: il divenire e la sua coerentizzazione matematica-fisica-descrittiva sotto le problematizzazioni zenoniane. Dopodiché, giunti al guado del fiume Divenire, ci immergiamo nell’angusto fondale del suo fermo istante, per riprendere pian piano velocità e riemergere dove le onde in superficie si elasticizzano e deformano solo la luce della relatività. Ove, delle sopra soluzioni standard, manteniamo integralmente le soluzioni (a.b.h.), mentre le altre SS: alcune vengono integrate (d.e.f.g.i.), altre rigettate (c.l.).

Nella presente, la maggior portata dell’apparato critico-storico è conservata nelle note. In chiaro la portata di questa Teoria, ampia da dirsi “argomento generale sul divenire”, ampia da introdurre a sua volta teorie al suo interno; lungo la disputa sui moti zenoniani.

1. Nota sul pensiero di Zenone

Riconosciamo il valore di ciò che sensibilmente appare col suo movimento spaziale e col suo scorrere temporale, contro i paradossi di Zenone che vorrebbero l’illusorietà/contraddizione del tempo e dello spazio e che da 2500 anni sono fra i più alti momenti del pensiero umano a favore dell’illusorietà/contraddizione temporale e spaziale.

Quando parliamo dei paradossi di Zenone dunque non parliamo di meri sofismi, gioco o divertissement, ma di una raccolta di grande profondità, una serie di tesi paradossali che l’autore non fa nulla per risolvere ma che sono capaci di provocare uno shock alla ragione non più in grado di spiegare nozioni comuni e naturali:[1] dove il più veloce non riesce a raggiungere il più lento, dove la freccia scagliata resta immobile, dove coloro che «affermano la tesi della molteplicità cadono in contraddizione»[2] con «effetti ancora più ridicoli della tesi dell’esistenza dell’unità».[3]

Figlio di Teleutagora, Zenone nasce nella piccola colonia di Elea nella Magna Grecia intorno agli inizi del V secolo a.C. Zenone di Elea è allievo diretto e prediletto di Parmenide, il maestro dell’essere non essere assoluti («Essere è, non-essere non è»),[4] sostenitore dell’immobilità dell’essere e dell’illusorietà del tempo e del movimento («Non c’è movimento in esso»),[5] sostenitore del primato della ragione sull’evidenza sensibile («Non lasciare che l’[esperienza] ti costringa […] ma giudica con la ragione»),[6] nonché dell’unità dell’essere («È un continuo, uno»)[7] fulcro centrale della sua dottrina: «l’essere è uno»,[8] tutto è uno.

L’allievo scrive una raccolta di situazioni assurde in apologia del suo maestro, toccando però temi estranei al mondo mentale parmenideo; un’opera di ingegno senza precedenti che gli valse il titolo, da parte di Aristotele, di «inventore della dialettica»,[9] una dialettica attenta a «ridurre a contraddizione il proprio interlocutore»,[10] oltreché portatore di descrizioni di eventi che non riescono più a rappresentare l’andamento degli eventi stessi, a rimarcare la frattura parmenidea fra ragione e sensibile; nel mentre un cinico, obiettato sull’esistenza del movimento, ritenendo più sicura della ragione la dimostrazione mediante l’evidenza sensibile, si alzò in piedi e si mise a camminare.[11] In mano una lanterna, a cercare l’uomo:[12]

Resta dubbia l’obiettività dell’analisi zenoniana, il suo esser lungi da quei condizionamenti psicologici – de lineis insecabilibus – che determinano quella teoria in cui la soluzione vale solo in rapporto a determinate premesse: «soddisfacente per chi pone il problema [ma] non basta a spiegare la realtà delle cose e la verità»,[13] non in grado di rispondere alle più importanti domande sul tema. È Socrate a pungolare Zenone domandandogli se «è solo a questo che mirano i suoi argomenti»:[14] alla mera difesa delle tesi del maestro. È Zenone rappresentato a confermare la presenza anche di tale aspetto polemico-apologetico; anche se per altre testimonianze s’insinua un’esegesi di scetticismo e nichilismo gorgiano (“la conoscenza non si fonda su nulla”) in un Zenone che attacca la tesi parmenidea dell’unità dell’essere per l’impossibilità di definire l’uno: «Si dice che Zenone affermasse che se qualcuno gli avesse saputo dimostrare la natura dell’uno, sarebbe stato in grado di spiegare il molteplice»;[15] sì ponendo l’uno al di sopra dell’essere, spostando la «coppia di concetti essere-non essere, su cui Parmenide si era incentrato, all’altra coppia uno-molti».[16] E «visto sotto questa luce Zenone acquista una sua originalità nei riguardi di Parmenide, anche contenutistica»,[17] con tratti di distacco dal suo maestro e sgorgando di intricati enigmi: «nella tradizione Zenone e il suo pensiero assumono di volta in volta facce diverse: si passa dal considerarlo solo ed esclusivamente un discepolo di Parmenide, privo di un pensiero autonomo, al considerarlo un sofista, un erista, uno scettico problematicista o un nichilista».[18]

È Anassagora di Clazoméne il primo ricercatore in cui non solo il grande ma anche il piccolo va all’infinito, in cui si tracciano in stretto contatto nozioni primordiali di infinitesimo, infinito, equinumerosità («rispetto al piccolo non c’è un minimo, ma c’è sempre un più piccolo […]. Così, rispetto al grande, c’è sempre un più grande, e il più grande è uguale al più piccolo come quantità»).[19] Propriamente però è Zenone di Elea a portarci per la prima volta fra le dinamiche del mondo infinitesimo, l’infinitamente piccolo, dove tempo e spazio appaiono illusioni e non è un caso che millenni dopo l’Eleata fu proprio la fisica quantistica – la scienza di ciò che accade nel piccolo – a rimettere in dubbio la realtà del tempo. Recando, gli enigmi di Zenone, un notevole contributo allo sviluppo del principio infinitesimale e alle nostre idee su movimento, tempo, spazio; benché ci sia stato un tempo – raccontano gli storici della scienza – in cui le parole zenoniane riuscirono a far abbandonare l’indagine matematica sull’infinito.

Dei presunti[20] «quaranta argomenti»[21] ingegnati dal «Palamede di Elea»[22] sono sopravvissuti solo dei brevi frammenti derivati da scritti di altri, eminentemente Platone e Aristotele, i quali a tratti mostrano caratteri più speculativi che storiografici, ma poi anche Porfirio, Proclo, Simplicio che restano voci fondamentali alla ricostruzione della vita e pensiero di Zenone. Tali frammenti ci sono principalmente noti col nome dato loro da Aristotele nella sua opera sulla Fisica, es: Achille; la Dicotomia; la Freccia; lo Stadio. I quali sono solo una parte dei frammenti giunti a noi e che qua noi trattiamo alla ricerca della coerenza del divenire.

2. Coerenza matematica del divenire

Uno dei più noti e suggestivi paradossi zenoniani  – Achille e la Tartaruga – affronta una questione prevalentemente matematica, dove – per rendere più precisa la scena – Achille deve raggiungere la Tartaruga distante 10 metri e il piè veloce corre a 10 metri al secondo mentre la testuggine corre a 1 metro  al secondo: Achille raggiunge il punto in cui stava la Tartaruga, mentre la Tartaruga si è spostata di 1 metro; successivamente il piè veloce raggiunge il punto in cui si è spostata la testuggine la quale si è spostata ancora di 0,1 metri e così via senza che mai Achille riesca a raggiungere la Tartaruga.

Ai tempi moderni, tale paradosso viene risolto con l’Analisi matematica, strumento di cui gli antichi erano privi, sviluppatasi dalla matematica del XVIII e XIX secolo e di cui il celebre pioniere fu il calcolo infinitesimale di Leibniz e Newton del XVII secolo.[23] Per tale Analisi, una somma di infiniti addendi sempre più piccoli può restituire un risultato finito. Esempio: 1/2+1/4+1/8+1/16+…+1/2n+…=1. In generale, nelle serie geometriche all’infinito,[24] gli addendi sono le potenze di un unico valore q, detto ragione: q0+q+q2+q3+… Sono chiamate serie convergenti all’infinito S quelle in cui il valore |q|<1, per cui, prendendo a come primo numero della serie, si ha S=a/(1–q). Sono invece chiamate serie divergenti all’infinito quelle in cui |q|>1, per cui S non ha significato. Infine è chiamata serie indefinita quella in cui |q|=1, per cui S=∞. In particolare: la serie numerica di Achille e la Tartaruga, espressa come 10+1+1/10+1/102+1/103+…+1/10n+…, restituisce un risultato definito 100/9 che è un numero determinato poiché se ne conosce l’ultima cifra.

Motivo per cui, matematicamente, Achille raggiunge la Tartaruga.

Il risultato di tali serie numeriche convergenti all’infinito ha da subito disarmato e mosso perplessità: (i) somme infinite che restituiscono risultati finiti; (ii) somme capaci di esprimere concretamente la soluzione finale di un processo illimitato. Ovverosia somme infinite che dimostrano di avere un punto all’infinito in cui convergono in un risultato definito; un punto ignoto quanto è ignoto il limite oltre cui la retta dei numeri reali si estende alla retta dei numeri iperreali:[25] “qual è l’ultimo numero reale oltre cui iniziano i numeri iperreali?” poiché per qualunque numero reale arbitrariamente piccolo esiste sempre un numero reale più piccolo. Parimenti “inidentificabile” è l’ultima operazione da cui si restituisce il risultato della serie convergente all’infinito la quale non permette di raggiungere il suo limite per via analitica di somme successive, anche se è l’andamento della serie stessa a permettere di sintetizzare tale ignoto limite (Es. 1/10+1/102+1/103+…) al suo risultato (Es. 1/9), all’intervallo intero di cui quella serie è la parcellizzazione, saltando il processo analitico di somma + al suo risultato, ovvero calcolandone il limite con un salto inferenziale appropriato da una quantità finita di sommatorie Σ alla somma infinita completa, così da poter pensare all’insieme senza bisogno di considerare separatamente tutte le sue parti, per quanto tale risultato sia divisibile all’infinito (Es. 0,111…) e di cui Zellini dice: «Il limite non è un termine della successione […]; esso è raggiunto rinunciando alla analisi indefinita […] e ponendosi in un punto di riferimento esterno»,[26] compiendo, filosoficamente, un atto intuitivo capace di abbracciare la totalità della serie.

In questo quadro non si contesta la possibilità di un intervallo continuo divisibile all’infinito bensì si contesta la nostra possibilità di accedere analiticamente a tutta l’infinita divisibilità, a ogni punto del continuum, semplicemente perché non possiamo contare uno a uno tutti gli infiniti punti di un intervallo, parimenti a come non possiamo raccontare completamente un oggetto perché ci vorrebbe una analisi senza fine, un’analisi talmente piccola infinitesima o grande illimitata da esulare dalle nostre finite capacità. E qui il continuum si rappresenta con il modello non standard dei numeri iperreali,[27] siamo cioè arrivati fronte a quantità inaccessibili per grandezza, quantità x infinitamente vicine allo zero 0<x<1/n o quantità y infinitamente vicine all’infinito ∞>y>1+n, grandezze non quantificabili, concepite non più come quantità: siamo fronte al dominio delle cose che per grandezza stanno oltre i limiti delle nostre finite misure e sensibilità, di cui possiamo dimostrare l’indeterminabilità metrica e sensibile in virtù delle condizioni di dimostrazione metrica e sensibile a cui tali cose non rispondono («Principio di dimostrazione»,[28] con A posso dimostrare se x ha o non ha l’istanza A).

Forse, diciamo per ipotesi: quel punto di passaggio all’immensurabile è il principio matematico per cui, si sospende la progressione della serie infinita dei numeri reali, permettendo ad Achille di superare realmente la Tartaruga, convergendo al risultato in un punto dato dalle condizioni in gioco.

Sulla verità della Analisi matematica, crolla l’impianto matematico di Achille e la Tartaruga, giacché vi è un punto matematico determinato a circa 11,1 metri in cui Achille raggiunge la Tartaruga, ove quindi anche il tempo impiegato dal piè veloce per raggiungere la testuggine è finito e dato da d/(Vv) per d=distanza fra Achille e la Tartaruga, V=velocità di Achille, v=velocità della tartaruga; ove tale quantità[29] d/(Vv) prova che Achille non può impiegare un tempo infinito per raggiungere la tartaruga perché il tempo per non raggiungerla è comunque minore a 1,1 secondi oltre il quale la raggiunge. O come motteggia Aristotele: «solo fin quando precede, non viene raggiunto».[30] E crollando l’impianto matematico che Zenone pose a base di Achille e la Tartaruga, necessario alla riuscita dell’argomento, crolla anche il paradosso stesso, giacché esso prende forza e si erge su concetti matematici manchevoli e superati, precipitando come frutto marcescente «di una conoscenza matematica inadeguata […] dipendente dall’ignoranza della teoria delle serie numeriche infinite convergenti […] un errore matematico».[31] Vale a dire: ciò che Zenone mise in discussione per via matematica, dalla matematica non è più messo in discussione, e, in questo contesto, non è la matematica l’incongruità col mondo sensibile (parádoxon, pará “contro” e dóxa “opinione”) che a destinazione ci arriva.

Vi è comunque una folta di detrattori che reputano inane applicare matematicamente una serie geometrica convergente all’infinito a una distanza fisica, poiché non è perfettamente dimostrata l’identificazione della retta dei numeri reali con la retta geometrica tantomeno con la vita: di controversa corrispondenza biunivoca.[32] A questi detrattori ricordiamo che è Zenone a rappresentare una distanza fisica richiamando matematicamente una serie infinita… e si sa che la matematica vuole la matematica come risposta, cosicché tale paradosso, pur trascinando con sé altri quesiti interessanti (Es. La divisibilità infinita dello spazio o continuum), crolli davanti alle serie numeriche convergenti all’infinito, non avendo più la sua colonna matematica, scheletro vertebrale, su cui sostenersi. Ripeto: benché l’Achille di Zenone «non è caratteristico soltanto del moto: riguarda il tempo, lo spazio e il moto, nella sola misura in cui vi sono implicate le nozioni di infinito e di continuità»,[33] ciò nonostante, la sua confutazione da parte delle serie numeriche convergenti all’infinito lo investe depauperandolo della sua forza matematica originaria, lasciandone vivo – appunto – sostanzialmente solo l’aspetto del continuum, che è la realtà soggiacente al paradosso con i suoi misteri più reconditi di tempo spazio e di noi in essi, un immane residuo necessario ma insufficiente a reggere da solo il paradosso originario.

Analogo al celebre paradosso di Achille e la Tartaruga è il paradosso della Dicotomia, con la differenza iniziale che lì, in Achille e la Tartaruga, l’argomento riguarda due mobili in addizione ricorsiva, richiamando l’infinito per addizione e le sue possibile grandezze y attualmente illimitate 1, 2, 3,…, n, n+y,…, senza mai riuscire a finire la corsa. Mentre nella seguente Dicotomia, l’argomento riguarda un mobile e un fisso in divisione ricorsiva, richiamando l’infinito per divisione e le sue possibili grandezze x attualmente infinitesime –1, –2, –3,…, –n, –nx,…, senza mai riuscire a iniziare la corsa.[34]

La Dicotomia argomenta pressappoco questo:[35] un mobile z si sposta dal punto A al punto B. Per giungere in B il mobile deve transitare per il punto di mezzo C del segmento, ma prima di arrivare in C deve transitare per il punto di mezzo D del segmento AC; e così via all’infinito. L’Analisi matematica è sempre la medesima e se «non vi sconvolge è perché non l’avete capita» (Bohr), se invece l’avete capita non ci credete (Cantor «Lo vedo, ma non ci credo»), fino a tingersi di “così è”:[36] la detta somma infinita di addendi sempre più piccoli restituisce un risultato definito, il che permette matematicamente al mobile z di divenire da A a B.

3. Coerenza fisica del divenire

Alla sopra risultanza matematica di Achille e la Tartaruga aggiungiamo una soluzione fisica che però non intacca il detto paradosso già crollato per mano matematica, ne corrobora solo l’aspetto esperienziale. Per meglio presentare: la suddetta serie convergente, mostra che il movimento è matematicamente possibile ma «non mostra come il movimento del corpo sia effettivamente possibile»,[37] dice che «un numero infinito di pezzi di somma [può avere] un intervallo finito […] ma non ci dice come un numero infinito di atti possa essere completato in serie»,[38] dice formule matematiche i cui valori la mente non ancora comprende. Di seguito affrontiamo l’effettività del movimento.

A livello esperienziale la divisibilità infinita è a noi inaccessibile nella sua totalità. Segue l’esperienza di aggregati di atomi dotati di grandezza, di punti materiali estesi, unità atomiche elementari e indivisibili le cui dimensioni sono le minime possibili. Stiamo parlando di corpi con grandezza ed estensione minima che non hanno parti con grandezza ed estensione, senza necessità che fra due atomi ve ne sia un terzo che li separa; diversi dai punti geometrici privi di estensione. Nel caso dei punti geometrici parliamo di dimensione 0 senza estensione, per i quali il suddividere non ha limiti qualitativi, superando qualsiasi rispondenza reale; nel caso degli atomi fisici parliamo della minima estensione a dimensione 1, per i quali il suddividere è limitato dalla natura del dividendo, restando intorno alle rispondenze effettive; ove l’atomo si pone come limite fisico minimo fra la dimensione sensibile reale e quella sovrasensibile iperreale. In siffatto caso[39] rivediamo la Teoria atomista di Democrito, dell’atomo costitutivo, tramite le seguenti teorie geometriche e matematiche.

Teoria fisica dell’atomo costitutivo:

Distribuzione fisica dei corpi[40]
Il corpo, struttura discreta di finiti atomi adeguatamente distribuiti. Ogni distribuzione di atomi nello spazio genera una corrispondente figura, una grandezza divisibile corrispondente alla struttura discreta che i suoi atomi definiscono nel loro insieme:

      • Sia f(a) la funzione scalare che rappresenta la densità spaziale degli atomi con coordinate (a1, a2, a3). La distribuzione f(a) definisce la figura F(a), cioè la disposizione discreta degli atomi nel corpo.

Somma fisica dei corpi
Il corpo, risultanza discreta di una somma finita di atomi, in una data successione. Questa somma difforme e discreta di atomi definisce la misura totale del corpo tramite la grandezza dei suoi atomi:

      • Sia A la somma finita di atomi a1+a2 nel corpo c, ovvero A=a1+a2c. La somma A definisce la grandezza G(a), cioè la grandezza complessiva degli atomi nel corpo.

Partiamo fisicamente il nostro resoconto con un esempio semplice che vuole rendere più intuitiva la successiva legge di Planck: il piede di Achille ha una data grandezza per la quale non è in grado di entrare in buchi troppo piccoli. Cioè non è in grado di calpestare e attraversare grandezze troppo più piccole rispetto alla grandezza del suo piede, indipendentemente dalla vicinanza di queste piccolezze o dal luogo di partenza di Achille,[41] ossia tutto ciò che accade sotto una grandezza limite inferiore è calpestato dal piede di Achille come fosse un’unità: saltato in blocco.

In un contesto continuum, “saltare un blocco” significa saltare un numero infinito di passaggi in un tempo finito, significa non analizzare l’intera serie del continuum presente nel blocco, significa sintetizzare tale continuum in una unità che lo assorbe tutto: come quando passiamo da 1 a 2 saltando l’infinita serie numerica che li separa, senza analizzarla nella sua infinità; come quando nel nome “casa” assorbiamo una serie molteplice di descrizioni o nel risultato 100/9 assorbiamo la serie infinita 10+1+1/10+1/102+1/103+…E questa la chiamo

Teoria del salto del continuum:

La possibilità di saltare un insieme infinito di atti in un tempo finito. Una teoria al quanto intuitiva, basti immaginare un piano divisibile all’infinito sopra cui ogni passo a dimensione maggiore di zero salta un insieme continuo di punti:

      • Piano continuum: sia P un piano composto da un insieme continuo di punti C, in cui ogni punto pi ha coordinate xi e yi per i ∈ N;
      • Salto del continuum: sia S un passo con dimensione maggiore di zero (S>0) e con una grandezza definita (S<i+S), quindi non è infinitesimo, estendendosi oltre il punto immediatamente successivo (S>i+1). Pertanto, il punto di arrivo j del passo S si trova in un intervallo compreso fra i+1 e i+S, esclusi gli estremi: j ∈ (i+1, i+S). Ciò significa che, nel muoversi con passo S dal punto iniziale pi al punto finale pj, ovvero S : pipj, si saltano tutti gli infiniti punti intermedi fra essi, che non vengono “toccati”. La formula è:

        S : pipj ​dove j ∈ (i+1, i+S);

      • Tempo del salto: sia pj il punto immediatamente successivo a pi secondo il passo S, e sia t il tempo iniziale di S in pi. Ne consegue che S raggiunge pj nel tempo immediatamente successivo t+1. Pertanto, il passo S da pi a pj avviene in un tempo finito t+1, nonostante l’infinità di punti intermedi fra pi e pj;
      • Logica del salto: in una sequenza pi, ph, pj, un passo S può spostarsi da pi a pj in un solo istante se ph viene contratto a dimensione 0, ridotto a infinitesimo quasi 0. Questo rende ph virtualmente sovrasensibile al passo S, permettendo a S di arrivare immediatamente a pj da pi senza transitare da ph. Tuttavia, ph non viene cancellato, ma si sospende e assorbe nel legame fra i due successivi pi e pj;[42]
      • Fisica del salto: l’immagine fisica che illustra il salto del continuum è il wormhole, il ponte di Einstein-Rosen, che curva la sequenza pi, ph, pj, connettendo direttamente pi e pj senza attraversare ph, pur  conservando ph in uno spaziotempo curvato fra pi e pj. Restituendoci un wormhole logico formale: il legame fra due successivi punti;[43]
      • Velocità del salto: in questo contesto, la differenza di velocità del passo S potrebbe dipendere dai punti assorbiti nel passo: più spazi vengono contratti, maggiore è lo spostamento.

Parallelamente, per una grandezza fisica non totale, non è realizzabile il supercompito[44] di compiere un insieme infinito di atti in un tempo finito cioè non le è possibile toccare tutti i punti di una continuità, dacché risultano indeterminabili le misurazioni oltre una data soglia di precisione, ossia, sotto un certo limite di piccolezza non abbiamo possibilità fisica di avere esperienza (Es. In proporzione alla propria grandezza e per l’indeterminazione di Heisemberg: più è precisa la misura della posizione tantomeno lo è quella del moto e viceversa e posizione e moto sono essenziali alla nostra esperienza), da cui l’impossibilità del supercompito di terminare analiticamente una serie di passaggi infinita la quale di principio non ha un termine analitico[45] a causa di un limite posto alla fine della serie senza fine quindi posto fuori dalla serie, che cade oltre la serie, «occupando per ordine il primo posto immediatamente al di là dell’intera serie»,[46] il cui risultato potrebbe (i) sintetizzarsi dall’andamento della serie stessa (ii) oppure essere raggiunto saltando il continuum per cui è (iii) o calcolandone il limite Σ (iv) o vedendone intuitivamente l’intera serie.

Tutte soluzioni queste (salto/sintesi/Σ/intuizione) che assieme paion tessere alcune trame del “Quantum Zeno Effect: la serie infinitesima fra Achille e la Tartaruga, sistema sub-microscopico, sembra influenzata dalla presenza di Achille posto a distanza macroscopica da essa. Infatti, senza che Achille attraversi effettivamente l’intera serie infinitesima, la progressione della stessa (decadimento) fisicamente comunque si arresta, convergendo al risultato (collassando in uno stato).”[47]

Forse, diciamo per ipotesi: quel punto di decadimento è il principio quantistico per cui, si arresta il decadimento della serie infinita, permettendo ad Achille di saltare sino alla Tartaruga, convergendo al risultato in un punto dato dalle condizioni in gioco.

In scienza fisica il sopra discorso si riduce ai pacchetti discreti di Planck, i quali empiricamente dimostrano che la comunicazione e lo scambio energetico ha dei limiti minimi in cui avviene, chiamati “pacchetti discreti”. Tutto ciò che potrebbe accadere e variare sotto la grandezza di Planck, anche se accade qualcosa in una sorta di continuum, ci è fisicamente irrilevante poiché infinitesimo alla nostra grandezza; come un numero iperreale in cui x, pur essendo diverso da zero, è talmente infinitamente vicino allo zero da non interagire col numero reale a cui si somma x+n=n.

Ovverosia: due corpi fisici, oltre una distanza minima relativa alla propria grandezza, si raggiungono nello spazio; a meno che la loro dimensione fisica sia 0. In quest’ultimo caso parliamo di punti geometrici x la cui nozione non è di nullità uguale a 0 ma di infinitamente vicino allo 0, quasi 0, infinitesimo, a dimensione 0, pertanto fisicamente non locale e irraggiungibile 0<x<1/n poiché «con tale metodo, dei punti, sarebbe necessario arrivare al termine di un processo senza fine, che è impossibile [per qualunque processo relativo]. Ma» continua Russell «proprio come si può dare una classe infinita tutta in una volta attraverso il concetto che la definisce […] così si può dare un insieme di punti infinito tutto in una volta in quanto formante una retta o un’area o un volume, anche se non è possibile raggiungerli per mezzo del processo di divisione successiva».[48]

In geometria proiettiva irreggimentiamo l’ivi citazione di Russell assumendo n come proiezione di corrispettive unità u infinitamente divisibili, ed n–1 come potenza di regressione al proiettante. Intercede una corrispondenza in cui n si proietta da ∞n–1 unità cioè si proietta da una «quantità attualmente infinita di punti distribuiti in tante dimensioni quante sono gli esponenti».[49]

Ivi si ottiene una grandezza divisibile, proiettata da infiniti punti indivisibili adeguatamente distribuiti; ove in Teoria degli insiemi ha considerazione un segmento finito composto di infiniti punti, una molteplicità attualmente infinita pensata come uno, un dominio invariabile e definito di una variabilità attualmente infinita, un infinito globalmente determinato, in questo luogo hegeliano di «infinito reso finito»;[50] ove il molteplice risulta un aggregato continuo di punti privi di dimensione; ove una somma infinita di punti a dimensione 0, infinitamente vicini allo zero ma diversi da zero, con grandezza né positiva né nulla bensì non misurabile perché quasi 0, può restituire un risultato definito.[51] In siffatto caso rivediamo la Teoria assiomatica di Euclide, del punto costitutivo, tramite le seguenti teorie geometriche e matematiche.

Teoria spaziale del punto costitutivo:

Distribuzione spaziale dei corpi[52]
Il corpo, struttura continua di infiniti punti adeguatamente distribuiti. Ogni distribuzione di punti nello spazio genera una corrispondente figura, una grandezza divisibile corrispondente alla struttura continua che i suoi punti definiscono nel loro insieme:

      • Sia f(p) la funzione continua che rappresenta la densità spaziale di infiniti punti con coordinate (p1, p2, p3). La distribuzione f(p) definisce lo spazio s(p), cioè la disposizione continua su un intervallo.

Esempio:

      • Se un punto di x è distribuito a Ovest e l’altro a Sud, si genera il segmento OS di x tramite una distribuzione continua di punti fra O e S.

Somma spaziale dei corpi 
Il corpo, risultanza continua di una somma infinita di punti, in una data successione. Questa somma uniforme e continua di punti, definisce la misura totale sull’intervallo tramite la densità dei suoi punti:

      • Sia A l’integrale continuo sulla regione del corpo c, A=cf(x)dx. L’integrale A definisce lo spazio s(A), cioè la misura totale su un intervallo.

Dove quasi 0 sommato a quasi 0 infinite volte può dare un risultato definito, esattamente: dalla somma infinita di grandezze infinitesime può mediarsi o una grandezza finita se la somma è convergente o una grandezza iperreale infinita se è divergente. Dimostriamolo:

      • Media classica: sia y la somma infinita e x l’infinitesimo. La loro media è data da (y+x)/2. Essendo x infinitesimo il suo contributo è trascurabile, per cui (y+x)/2 ≈ y/2. Qui, se y converge a un numero definito allora la media aritmetica sarà un numero definito, se y invece diverge allora la media aritmetica sarà un numero iperreale infinito;
      • Somma McLaughlin: sia (0, 1) l’intervallo aperto e sia x1 il più piccolo numero maggiore di zero 0<x1<x2<…<1/n. Completando la somma x1+x2+ … si ottiene il più grande numero minore di uno xn=1−x1, che corrisponde alla somma totale di infinitesimi che completa l’intervallo. Nel passaggio successivo xn+x1 si raggiunge l’intervallo intero 1. Si legge che una somma di infinitesimi xn può completare un intervallo finito se l’indice n di xn è un numero intero infinito y, tale che ∞>y>1+n, ossia se l’infinitesimo x è sommato infinite volte.[53]

Cosicché «l’idea che una somma [infinita] di elementi [diversi da 0 ma] del tutto privi di dimensioni possa avere un’estensione [appare in geometria proiettiva] realizzabile nella realtà».[54]

La sopra realizzazione geometrica/matematica resta attendibile benché tali punti x a dimensione zero siano irraggiungibili per mezzo del processo di divisione successiva 0<x<1/n, iperreali e immensurabili x+n=n, cioè sovrasensibili quindi inestesi acciocché il sovrasensibile è privo di estensione per non dirsi sensibile. Una nozione di punto questa che porta al concepimento di un ente sovrasensibile inesteso, oltre a consegnarci la nozione di sovrasensibile x+n=n come grandezza x non omogenea alla retta dei numeri reali e la nozione di indivisibile 0<x<1/n come grandezza infinitesima x intaccabile dalla retta dei numeri reali. Nozioni queste che spostano il concetto di somma di punti, la quale non è più una somma di zeri, di nullità, bensì di quantità quasi zero tanto infinitamente vicine allo zero da non essere di principio quantificabili, pura intuizione, ma che sommate all’infinito e solo all’infinito possono restituire un risultato finito.

Abbiamo in tal modo rilevato quattro modalità per generare corpi, di cui due somme matematiche e due distribuzioni geometriche: 1. La somma infinita di punti o somma spaziale dei corpi; 2. La distribuzione continua di punti o distribuzione spaziale dei corpi; 3. La somma finita di atomi o somma fisica dei corpi; 4. La distribuzione discreta di atomi o distribuzione fisica dei corpi. Quivi la continuità spaziale dei punti riguarda ciò che è potenziale, la potenzialità generale del continuum, mentre il discreto fisico degli atomi riguarda ciò che è effettivo, la potenzialità effettiva del discreto; e in questo luogo whiteheadiano, il continuo presenzia in ogni discreto e ogni discreto invade il continuo, dove ogni corpo discrezionalizza il continuo a misura della propria grandezza, senza che vi sia un alterco fra i due mondi, ma un mondo solo in una sorta di relazione “potenziale-effettivo”, per continuum potenziale e discreto effettivo. Un luogo whiteheadiano in cui portare eventi come il “Quantum Zeno Effect: se l’atto di osservazione su x riduce la probabilità di decadimento di x confronto a un y meno amato, allora tendendo a compiere infinite misure su x la sua probabilità di decadimento si annulla. Questa misura ideale/potenziale non si verifica però in un mondo in cui ogni osservazione reale/effettiva è di principio discreta, tale per cui ogni x prima o poi decade.”

Si sta implicando che se qualcosa esiste allora è una quantità, ma se la sua quantità è matematicamente irriducibile allora è inestesa, sovrasensibile, una grandezza non quantificabile, indivisibile; dove l’estensione è la natura dello spazio parimenti a come la durata è la natura del tempo, così se la geometria è la scienza dell’estensione pura, allora ciò da cui si dà l’estensione, il punto, non può essere a sua volta esteso, ma privo di natura spaziale; parimenti a come l’istante, da cui il tempo, non ha natura temporale, sottraendosi alla durata.

Sensibilizziamo l’ivi geometria/matematica in nozioni comuni e naturali, attraverso il chicco di miglio di Zenone, per cui un (“infinitesimo”) chicco di miglio che cade non emette alcun suono percepibile a noi, mentre mille (“infinitesimi”) chicchi di miglio che cadono emettono un suono percepibile a noi. Oppure attraverso il calvo di Eubulide di Mileto della scuola Megarica, per cui un (“infinitesimo”) capello caduto dalla testa non rende calvi, mentre mille (“infinitesimi”) capelli caduti dalla testa rendono calvi. Donde è ignoto il momento della serie in cui si restituisce il rumore dei chicchi di miglio o l’alopecia. Si sa però due cose: la prima, dai tratti riduzionisti, è che «nulla […] vieta che [il chicco di miglio] in nessun tempo muova quell’aria che invece fa muovere nella sua caduta tutto intiero il medimno»,[55] in virtù di quella soglia sensibile secondo cui «i suoni al di sopra e al di sotto di una data frequenza non sono avvertibili dal nostro apparato uditivo, ma ciò non significa che le vibrazioni non sussistano»,[56] diversamente dall’infinitesimo punto sovrasensibile inesteso. La seconda cosa saputa, dai tratti olistici, è che «esiste un limite inferiore alla dimensione di qualcosa che può emettere un suono, con parti che hanno proprietà molto diverse dagli insiemi che costituiscono»,[57] come i punti senza estensione che costituiscono un segmento esteso. Pare comunque esperienza di proiezione divinatoria che una somma infinita di impercettibili infinitesimi possa mediare un risultato percepibile e definito.

Inoltre abbiamo perso la cesura tra ragione e sensibile, combinata la costruzione matematica con l’osservazione della natura: la matematica dimostra che la somma infinita anzidetta restituisce un risultato definito; tale risultato definito converge nell’evidenza sensibile per la quale Achille, relativamente alla propria grandezza, non può percorrere l’intero infinito attuale ma lo salta/sintetizza/Σ/intuisce oltre un dato limite inferiore, così restituendo un risultato finito.

Motivo per cui, fisicamente, Achille raggiunge la Tartaruga.

Si perviene a mettere in luce un fondamentale non sequitur del piè veloce e la testuggine, una falla nella formazione del detto paradosso: la matematica divisibilità infinita non implica che una qualsiasi grandezza possa accedervi completamente; mentre una grandezza relativa implica il suo non totale accesso a ogni punto del continuum matematico, altrimenti sarebbe assoluta. Il che indubbiamente impiatta la detta questione come enigma filosofico poggiato su problema aritmetico.[58]

4. Coerenza descrittiva del divenire

Definiamo il divenire passando per il paradosso della freccia di Zenone, il quale afferma che nulla si muove quand’è in uno spazio uguale a sé, e poiché ciò che si muove occupa sempre in ogni istante uno spazio uguale a sé, allora la freccia che si muove è immobile.

Da tale immobilità emerge che una serie di diversi istanti x,y,z non giustificano lo scorrere del tempo, così come una serie di diversi essenti x,y,z non giustificano il moto, dacché dalla somma di istanti/essenti immobili, di velocità nulla, non può risultare un movimento, dacché «l’andare da qualche parte [non può] essere composto da un aggregato di non-andare da nessuna parte».[59] In breve: «le differenze tra parti temporali non riescono ad essere dei cambiamenti per la stessa ragione per cui non lo sono le differenze tra parti spaziali».[60] Tali differenze sanciscono solo la presenza di diversi istanti o di diversi essenti o, al più, sono “prove indiziare” del divenire. In siffatto caso ci approssimiamo alla «“teoria at-at” secondo la quale “essere in movimento” significa “essere in luoghi diversi in istanti diversi”»,[61] donde al più si coglie il già mosso ma non il movimento.[62]

Il divenire è invece il trasformarsi di uno stesso x da A a B, connota la continuità di x su diverse posizioni spaziotemporali; continuità di cui ciascuno è conscio ricordando ieri, o guardando il proprio braccio muoversi in questo luogo bergsoniano di «continuità del movimento reale».[63] Donde ciò che diviene da A a B occupa sempre uno spaziotempo uguale a sé A=A e B=B ma diverso da quello prima B≠A e da quello dopo B≠C; ed è solo per tale passaggio su diversità che si giustifica il divenire: nello scorrere di x da un immobile A all’altro B. In siffatto caso ci approssimiamo alla teoria aristotelica secondo la quale «il movimento è l’atto di ciò che è in potenza […] in quanto è mobile»[64] donde la postilla “in quanto è mobile” indica non il già mosso ma il movimento in corso.

Il prestigio della freccia di Zenone è di aver colpito un segno, da cui avanziamo la seguente possibilità.

Introduzione alla Teoria del divenire:

L’essere in luoghi diversi in istanti diversi x(A, t1), x(B, t2) è il risultato del divenire, il già mosso. Invece il divenire è l’operazione da cui appaiono i diversi istanti temporali o punti spaziali. Il primo, il già mosso, è un termine statico di x, il secondo, il divenire, è un processo dinamico di x. Tale che: il divenire è l’operazione di x da un suo termine x(A, t1) a un altro suo termine x(B, t2). Donde si distinguono i termini dell’operazione, il già mosso, dall’operazione stessa, il divenire:

      • Termine x(A, t1)​: x si trova in A all’istante t1;
      • Termine x(B, t2): x si trova in B all’istante t2;
      • Operazione fx(A, t1, B, t2): f è il processo di x che porta x(A, t1) a x(B, t2).

Nel divenire f di x da A a B: A e B sono risultati di x o possibilità di x, aspetti con cui x appare relativamente a come viene relazionato o a come si relaziona. Cosicché x appaia in qualche suo aspetto A o B relativamente al tipo di relazione:

  • x = A nel punto 1;
  • x = B nel punto 2;
  • x = C nel punto 3.

Per un x in sé intero e sovrapposto su tutte le sue possibilità simultaneamente:

  • x = {A nel punto 1, B nel punto 2, C nel punto 3}.

In tal guisa x si conserva coerente, perché non è necessariamente contraddittorio ciò che è A e nonA sotto aspetti 1,2,3 diversi. Conservandosi altresì intero, perché ogni possibilità A,B,C di x è già compresa in sé fra le possibilità di x, cioè l’oggetto x è in sé l’insieme sovrapposto su tutte le sue possibilità, costante e immobile, e appare fenomenicamente in qualche suo aspetto variabile e mobile relativamente al tipo di relazione in cui intercorre; senza che la relazione fenomenica ne intacchi il valore in sé giacché in sé esso è già ogni sua possibilità.[65] Specchiamoci negli occhi del gatto di Schrödinger: ammettiamo che la stessa cosa sia in se stessa esclusivamente sopra e sotto assieme, apparendo sopra in dati rapporti e sotto in altri.

La definizione che Zenone fa del moto della freccia, invece, l’at-at non è la corretta descrizione del moto in generale, finché descrive le stazioni statiche (A, t1), (B, t2) del divenire e non il suo processo dinamico f, così generando un paradosso dove la descrizione del moto non descrive il moto, con cui sibilare teorie di illusorietà del tempo e dello spazio. Cosa che invece non accadrebbe se si descrivesse il moto secondo la definizione che gli si deve: il divenire, tanto temporale quanto spaziale, non è dato da una serie di diversi istanti o essenti bensì da uno stesso x che relazionandosi f scorre da una (A, t1) all’altra (B, t2) sua possibilità così generando l’apparire di diversi istanti t1, t2 e aspetti A, B di uno stesso continuato x. In altre parole, il divenire restituisce gli istanti e le durate spaziotemporali, le varietà quantitative e qualitative, di cui la velocità V=S/T è il ritmo con cui diviene (s1, t1), (s2, t2),…,

5. Esperimento mentale dell’istante

Per entrare nel dettaglio della coerenza descrittiva del divenire, introduciamo la nozione di istante, tramite un esperimento mentale.

Immagina: un istante spaziale x in cui è impresso un corpo c in tensione rotatoria, un prato di fondo e le altre cose che ci stanno. Questo fotogramma non ha durata, è istantaneo, di velocità quasi zero v≈0, cioè accade immediatamente in quell’istante e immediatamente, nell’istante successivo, è un istante diverso, apparendo e scomparendo nell’immediato, un luogo newtonleibniziano dove la velocità istantanea è definita come il limite del rapporto tra la variazione di spazio e la variazione di tempo quando quest’ultima tende a zero: limΔt→0 Δst. Al contrario della quiete a velocità zero v=0 che perdura nel suo stato.

Eppur, in tal lampante istante, la distribuzione fisica degli atomi di c suggerisce una sua direzione di moto ε, entro un campo di probabilità e a esclusione di salti quantici o di discrepanze dall’universo conosciuto. Così, pur “congelando” l’istante, esso permette di stimare, dalla sua metrica spaziale, una ipotetica direzione ε per lo stato di moto regressivo x−ε e progressivo x+ε del corpo c. E questa la chiamo

Teoria della tensione dei corpi:

La distribuzione atomica (densità atomica) e la metrica spaziale (tensore metrico) di un corpo c permettono di stimare le sue ipotetiche direzioni di moto ε (campo di moto), anche quando il corpo è “congelato” in uno stato di velocità zero. Una teoria al quanto intuitiva:

      • Densità atomica: sia f(a) la funzione scalare che descrive la densità spaziale degli atomi del corpo c, espressa come f(a) = f(a1​, a2​, a3​), dove (a1​, a2​, a3​) rappresentano le coordinate spaziali. Le distribuzioni di questa funzione possono influenzare le potenziali configurazioni dinamiche del corpo;
      • Tensore metrico: sia gij il tensore metrico che descrive la geometria spaziale del corpo c, rappresentando la relazione tra le distanze e gli angoli tra i punti pi e pj del corpo. La curvatura dello spazio associata a gij descrive come lo spazio può deformarsi rispetto al corpo c;
      • Campo di moto: sia ε(c) un campo vettoriale ipotetico che rappresenta le possibili direzioni di moto che il corpo c potrebbe assumere partendo da una data configurazione. Quivi, anche un corpo congelato in un istante x con velocità quasi zero v(c)≈0 può suggerire dinamiche potenziali a partire dalla distribuzione spaziale della densità atomica f(a), dalla curvatura associata al tensore metrico gij, e dai campi di probabilità associati al moto P(ε).

In siffatto caso rivediamo la Teoria dell’impeto di Filopono-Buridano,[66] tramite il seguente schiarimento: la Teoria della tensione dei corpi non aggiunge alcuna grandezza alla cinematica, ma basandosi sulla posizione, deriva la densità atomica f(a) e il tensore metrico gij del corpo c presente in quella posizione. Successivamente, da tali dati, definisce le ipotetiche direzioni di moto ±ε che il corpo c potrebbe assumere. Dove il campo vettoriale di moto ipotetico del corpo ε(c), non è uguale al tasso di variazione del corpo nel tempo o nello spazio, poiché comprende l’insieme delle direzioni potenziali che il corpo può o poteva prendere, incluse quelle che effettivamente prenderà o ha preso. In breve, data la conoscenza di una posizione e le sue direzioni di moto, l’analisi del problema permette di predire un campo di probabilità, una regione, una fascia di valori misurabili, in cui potrebbe in futuro trovarsi o in cui potrebbe essere stato in passato.

Nell’istante, l’assenza di variazione spaziale è descritta dalla staticità della distribuzione degli atomi f(a) e dei punti f(p), riflettendo l’assenza di cambiamento nell’istante. Esattamente la posizione descrive dove si trova il corpo c, da cui la sua energia potenziale in relazione allo spazio circostante (Es. Se in un istante, il corpo si trova in alto, la sua energia potenziale gravitazionale è più alta di un corpo che si trova più in basso), la distribuzione discreta dei suoi atomi f(a), la distribuzione continua dei suoi punti f(p). Mentre l’assenza di variazione di tempo, nell’istante, è descritta dalla componente temporale del tensore metrico gμν, che descrive la geometria dello spaziotempo, la cui curvatura influenza il modo in cui il tempo può scorrere.

Le direzioni di moto ±ε del corpo c sono sue proprietà di vicinato derivate dalla densità atomica f(a) e tensore metrico gij della sua posizione: f(a)⋅gij=ε dove la direzione di moto del corpo è proporzionale al prodotto fra la sua densità atomica e tensore metrico: ε(c) ∝ f(a)⋅gij​ indicando con k la costante di proporzionalità: ε(c) ∝ kf(a)⋅gij​. Ossia, in ogni istante x,il corpo c è multi-locato, distribuito su tutte le direzioni ±ε dell’intorno relativo di quell’istante: c(x) ∈ [x−ε, x+ε]. L’insieme di queste proprietà di vicinato è lo stato di vicinato, il quale, dato un istante, determina il campo di possibilità dell’istante successivo e precedente, quindi uno stato di vicinato causalmente rilevante nel fissare le probabilità degli sviluppi futuri e passati,[67] descrivendo un istante x segnato dalle direzioni di moto ±ε. Tale stato di vicinato consegue che, in ogni istante x, il corpo c sia ancora in direzione di dove è già stato x−ε e sia già in direzione di dove non è ancora stato x+ε.[68] In cui x−ε è la direzione di moto che definisce la destinazione passata x−ε=passato, mentre x+e è la direzione di moto che definisce la destinazione futura x+ε=futuro; ben distinguendo la direzione di moto dalla sua destinazione, cioè distinguendo l’operazione f del divenire x±ε dal suo risultato passato x(A, t1) e futuro x(B, t2). La formula generale che descrive l’istante è la seguente:

Formula dell’Istante
Quando ε0: x ∈ [x−ε, x+ε] si restringe a x
L’istante x appartiene all’intervallo tra passato x−ε e futuro x+ε, inclusi gli estremi sovrapposti nel punto x. Donde tanto più la direzione di moto tende a zero ε→0, tanto più l’intervallo fra passato x−ε e futuro x+ε si assottiglia, sino a sovrapporsi sul medesimo istantaneo x.

La formula si prova immediatamente in tecniche di esposizione fotografica, dove per fare una foto al corpo, l’otturatore di una macchina fotografica deve rimanere aperto per un intervallo di tempo dell’intorno del corpo, un intorno regolabile da diversi fattori; non potendo catturare l’infinitesimo istante. Questa visione dell’istante differisce dalla rappresentazione del presente, descritto come:

Formula del Presente
Quando ε=1: x ∈ (x−ε, x+ε)
Il presente x appartiene all’intervallo tra passato x−ε e futuro x+ε, esclusi gli estremi. Un luogo heideggeriano di «[presente] incluso nel mondo della temporalità originaria, col suo avvenire e il suo esser-stato»,[69] un luogo markoviano in cui il passato ha influenza sul futuro attraverso il presente.

La differenza fra queste due rappresentazioni richiama la differenza fra punto continuo e atomo discreto: l’istante è un continuo senza durata che intreccia passato e futuro, uno stare frutto di una composizione di elementi; il presente è un discreto con durata (minima) che separa e collega passato e futuro, un dinamico radicato nel passato e proiettato al futuro. Si segnano due nature del tempo: (i) di cui una quantitativa, il tempo misurato, l’istante continuo; (ii) di cui l’altra qualitativa, il tempo vissuto, il presente discreto.

Sulla differenza fra istante e presente, annotiamo[70] una tendenza generalizzata a distinguere l’istante senza durata e il presente con durata. Ciò implica assegnare al presente uno Stato di moto per cui, da uno all’altro estremo della sua durata, il presente x collega il passato x−ε al futuro x+ε, pur separandoli con la sua durata: x ∈ (x−ε, x+ε). D’altra parte implica assegnare all’istante uno Stato di limite per cui, per la sua non durata, l’istante x è il punto limite sopra cui si intrecciano e scambiano il passato x−ε e il futuro x+ε, le cui direzioni si sovrappongono sull’istante stesso: x ∈ [x−ε, x+ε] quando x−ε=x+ε per ε→0.

Ne concludiamo che, anche in uno stato congelato, l’istante x può contenere indicazioni rispetto al suo stato di moto futuro e passato, “prove indiziare di moto”, prove dell’esistenza di una operazione di moto; prove con cui poter peranco riassemblare il passaggio del moto, per esempio:

Riadattando la proprietà dei semi gruppi x(t1)x(t2) = x(t1+t2), un’istantanea x che avviene in un tempo infinitesimo t1, seguita immediatamente da un’altra sua istantanea in t2, equivale a una durata ininterrotta per un tempo t1+t2; ove si evince, con Levi, che questi istanti spaziotemporali «implicano il movimento, [anche solo perché] hanno per base la divisione dello spazio e del tempo e la composizione delle parti divise, e divisione e composizione non sono altro che determinazioni del movimento»,[71] anche se propriamente gli istanti non sono movimento, pur implicandolo. Il divenire infatti è esattamente altro, è l’operazione che ha restituito gli istanti t1,t2 con cui abbiamo appena riassemblato la durata; con la complicanza che, portando a estreme logiche le dette proprietà dei semi gruppi, un continuum di punti indivisibili in linea t1+t2+… definisce una linea senza interruzioni tn, una tessitura liscia su scala assoluta, ma granulosa su scala relativa in virtù della limitatezza dell’osservazione e misurazione discrezionale.

Se queste “prove indiziare di moto” sono contenute nella distribuzione fisica degli atomi (densità atomica) e nella metrica spaziale dei punti (tensore metrico), allora esse diventano meno evidenti quanto più il corpo è isolato, atomico o ridotto a singolo punto. Quantunque sia: la Teoria della tensione dei corpi, basata sulla distribuzione atomica (densità atomica) e sulla metrica spaziale (tensore metrico), apre scenari, alla ricerca di tracce di moto negli istanti generati dal divenire.

6. Esperimento mentale della velocità

Un carattere importante del divenire è la “velocità: ritmo del divenire”. Il cui quadro generale è possibile derivarlo dalla sopradetta canonica definizione di velocità istantanea, assieme alla canonica definizione di velocità media:

Quadro generale delle velocità[72]

1. Velocità media
Δst.
equivale alla variazione della posizione Δs rispetto alla variazione del tempo Δt. Rappresenta il rapporto tra la distanza totale percorsa e il tempo totale impiegato.

2. Staticità 
limΔs0 Δst
equivale  all’assenza di variazione della posizione rispetto alla variazione del tempo. Rappresenta la quiete naturale.

3. Velocità istantanea
limΔt0 Δst
equivale al limite del rapporto tra la variazione della posizione e la variazione del tempo, quando quest’ultima tende a zero. Rappresenta la derivata della posizione rispetto al tempo.

4. Immobilità
limΔs0,limΔt0 Δst
equivale all’assenza di variazione della posizione rispetto alla variazione del tempo, viceversa. Rappresenta il riferimento del sistema.

5. Velocità per variazione di tempo unitaria
limΔt1 Δst
equivale alla variazione della posizione rispetto alla variazione per unità di tempo standard. Definisce la misura dell’intervallo di tempo.

6. Velocità per variazione di spazio unitaria
limΔs1 Δst
equivale alla variazione di spazio unitaria rispetto alla variazione del tempo. Definisce l’oggetto della misura temporale, nei termini di quanto tempo occorre per percorrere una certa unità spaziale o di quanto tempo occorre a una unità spaziale per spostarsi totalmente, rappresentando il tempo necessario per percorrere una determinata distanza o per lo spostamento di una certa unità.

7. Velocità per variazione di tempo e spazio unitaria:
limΔt1, limΔs1 Δst
equivale alla variazione di spazio unitaria rispetto alla variazione per unità di tempo standard.

Il quadro permette di escogitare un ulteriore esperimento mentale per entrare nel dettaglio della coerenza descrittiva del divenire. Prendiamo l’Achille nostro. Sappiamo che nel tempo di 1 secondo percorre il primo tratto di strada che lo separa dalla Tartaruga, la quale nel frattempo si è spostata, allora Achille, nel tempo di 0,1 secondi, percorre il secondo ulteriore tratto di strada, e via discorrendo, compiendo sempre più velocemente ogni ulteriore tratto di strada che lo separa dalla testuggine, fin al punto in cui la velocità raggiunge un tempo così piccolo da approssimarsi a quasi zero, sì completando istantaneamente l’intera serie convergente; finché la velocità istantanea v≈0 è intesa come la realizzazione immediata di ogni istruzione dell’operazione senza differenza fra tempo globale di esecuzione dell’operazione e tempo di esecuzione delle singole istruzioni. 

Forse, diciamo per ipotesi: quel punto di passaggio alla velocità quasi zero è il principio velocistico per cui, si completa istantaneamente l’intera serie, permettendo ad Achille, nel passo successivo, di raggiungere la Tartaruga, convergendo al risultato in un punto dato dalle condizioni in gioco.

7. Coerenza relativa del divenire

Di interesse relativistico è il paradosso zenoniano dello Stadio: due serie di masse uguali in uno stadio si muovono incontro a pari velocità rispetto a una massa in quiete, con la conseguenza che la metà è uguale al doppio.

Ricostruire il senso originario del detto argomento non sembra facile, perché giuntoci corrotto o con aggiunte improprie dei commentatori successivi. Pare comunque che l’enigma trascini alla luce l’esperienza di più tempi, la relativizzazione del tempo a seconda del sistema di riferimento, in cui «il tempo trascorso tra gli eventi è relativo al percorso attraverso lo spaziotempo che [si]  compie tra di essi»[73] e, come riscontrano alcuni, il paradosso è certo risolto complessivamente dalla Teoria della relatività speciale di Einstein per la quale uno stesso spazio, tempo o velocità si contrae o dilata secondo il sistema di riferimento. Per esempio:

Più è veloce il sistema di riferimento, più gli si contrae/accelera il tempo esterno ed espande/rallenta quello interno, più gli si contrae/riduce lo spazio esterno ed espande/aumenta quello interno; inversamente. La teoria vuole che le contrazioni abbiano dei limiti fisici dati dalla bipolarità della curvatura spaziotemporale che porta all’inversione delle forze espresse, ossia il rimpicciolimento continuo dello spaziotempo ha un limite relativo oltre il quale si inverte; viceversa. Sì fosse – con Catalano – nell’antica corsa del piè veloce vi sarebbe un limite in cui, la contrazione continua della serie infinita in termini sempre più piccoli, relativamente si arresta e si inverte in ingrandimento, consentendogli di raggiungere la testuggine.[74]

Forse, diciamo per ipotesi: quel punto di inversione è il principio relativistico per cui, si raggiunge il limite di piccolezza relativa, permettendo ad Achille di superare fisicamente la Tartaruga, convergendo al risultato in un punto dato dalle condizioni in gioco.

In generale, il corpo in movimento appare diverso al mondo, il mondo appare diverso al corpo in movimento. Segue che il corpo c non ha una posizione relativa determinata rispetto a un istante x, nel quale – appunto – potrebbe apparire in una o l’altra direzione ±ε relativamente al sistema di riferimento; dimostrandosi multi-locato sulle sue diverse direzioni: c(x) ∈ [x−ε, x+ε]. Più semplicemente, ogni istante x di c può apparire in una x−ε o l’altra x+ε sua direzione relativamente all’osservatore, per esempio: sulla Terra, nello stesso istante x, posso apparire io x+ε o dei dinosauri x−ε, metà o doppio, sopra o sotto, a seconda di parametri come distanza, velocità, località, temporalità, parametri relazionali fra osservato e osservatore.

In conclusione, qua è facile vedere come la relatività speciale sia rilevante al problema, diretta alla misurazione di istanti temporali e alla loro misurazione da parte di sistemi in reciproco riferimento, o quantomeno sono i nostri detrattori a dover chiarire i parametri per i quali lo Stadio zenoniano non è un caso di relatività; prima di farci concludere che la relatività è la standard solution dello Stadio, qua dove: la strada sarà metà sotto una data contrazione di Lorentz e doppia per un’altra; i presenti di certuni saranno gli anni e le stagioni di talaltri; i chilometri di costoro un passo infinitesimale del mio tragitto. «Il paralogismo [dello Stadio] consiste in questo, nel ritenere che con la stessa velocità si percorra nello stesso tempo la stessa grandezza presa in un caso lungo un mosso e nell’altro lungo un immobile. Questo invece è falso.»[75]

Conclusione

I paradossi di Zenone sul divenire sembrano risolversi sia presso la teoria infinitista, intendendo il continuum e quindi il punto geometrico come indivisibile a dimensione 0, sia presso la teoria finitsta, intendendo il discreto e quindi il punto materiale come atomo indivisibile a dimensione minima. Ossia il divenire si è dimostrato attendibile tanto nel continuum matematico quanto nel discreto fisico, tanto in ragione quanto in sensibile. E di più: dalla presente disputa sui moti zenoniani non sono emersi rilievi per credere che continuum e discreto non siano espressioni rispettivamente potenziali ed effettive di una medesima realtà.

Da questo mio saggio rimangono silenziati i frammenti paradossali di Zenone sulla molteplicità: quello del grande e piccolo, del limitato e illimitato, dell’uguale e diverso (Cfr. Nota 51), quello del mucchio (Cfr. Cap. 3) e quello spaziale. I quali riguardano gli argomenti contro il molteplice e non riguardano direttamente gli argomenti contro il movimento qua in esame, i quali quindi qua sono stati solo attraversati indirettamente, come ricordo di seguito:

Nozione punto: il molteplice è una struttura continua di punti x privi di dimensione, è una somma infinita di punti a dimensione zero, punti infinitamente vicini allo zero ma diversi da zero, infinitesimi, la cui grandezza non è né positiva né nulla bensì non misurabile, quasi zero, non locali, irraggiungibili per mezzo del processo di divisione successiva 0<x<1/n, indivisibili, enti inestesi, immensurabili e sovrasensibili x+n=n, solo intuibili. Dove quasi 0 sommato a quasi 0 infinite volte può dare un risultato definito, dove una somma infinita di infinitesimi può convergere a un risultato finito, dove una distribuzione continua e uniforme di punti nello spazio può generare estensioni e oggetti misurabili.

Nozione istante: il molteplice è uno scorrere continuo di istanti privi di durata, è una somma infinita di istanti a temporalità zero, istanti infinitamente vicini alla stasi zero ma diversi dalla stasi zero, infinitesimi, la cui durata non è né stasi né movimento bensì istantanea, di velocità istantanea quasi zero v≈0, apparendo e scomparendo nell’immediato, dove quasi 0 sommato a quasi 0 infinite volte può dare un risultato definito, dove un’infinita distribuzione continua e successiva di istanti quasi zero (istantanei) può generare durate e oggetti scorrevoli.

Talché l’esperienza dei corpi fisici si misuri solo potenzialmente tramite punti adimensionali, punti spazio-geometrici inestesi, ma effettivamente tramite atomi dimensionali, punti fisico-materiali estesi, poiché – repetita iuvant – non sensibile, non analiticamente misurabile in ogni sua parte, pura ragione, intuizione, l’intero continuum di punti che li proietta e separa: in filosofia, un mandala di sovrasensibili ragione in sé che sincronizza e interconnette il mondo sensibile:

Nozione atomo: il molteplice è una struttura discreta di atomi con dimensione, è una somma di atomi le cui dimensioni sono le minime possibili, di grandezza ed estensione minima senza parti con grandezza ed estensione, senza che fra due atomi ve ne sia necessariamente un terzo, unità discrete, elementari, fisicamente indivisibili, finite, di grandezza positiva, misurabili, locali, sensibili, dove una distribuzione discreta e difforme di atomi in un corpo può generare la misura soggettiva di quel corpo.

Nozione presente: il molteplice è uno scorrere discreto di presenti, è una somma di presenti con temporalità minima, finiti, con durata temporale e movimento spaziale.

Mentre d’altra specie è il paradosso zenoniano sullo spazio, tanto da non avergli trovato contesto. Si veda, per esempio, quanto dista tal linguaggio dal divenire: «Se lo spazio è qualcosa in che sarà?»[76] «Se lo spazio è qualcosa sarà in qualcosa»[77] quindi sarà in uno spazio s e quello spazio in un altro spazio s e così all’infinito s1s2s3∈…, convergendo all’infinito nello spazio infinito S={s1, s2, s3,…, sn+1} per il quale: se lo spazio è qualcosa, ogni estensione sarà in esso, compreso lo spazio stesso, quindi le cose si estenderanno nello spazio e lo spazio in sé. E sicuro non è in tal guisa che si esaurisce cotanta abissale questione, la qual sfugge in ataviche regressioni e progressioni: «se ogni cosa è causata allora, per regressus in infinitum, vi è una causa infinita che è causa di sé [in causa sui]»,[78] cosicché il movimento, pur in regresso infinito, possa iniziare. Ciò che invece si è esaurita è l’attinenza di questo paradosso spaziale zenoniano col divenire: non più attinente di una pera o dell’uno, cioè inerente a tutte le cose, un argomento di ordine altro dal divenire. La soluzione standard sull’argomento, comunque, vuole di tagliare a monte il quesito, negando ad hoc che i luoghi abbiano luoghi, ponendo la nozione di spazio relativa soltanto al sistema di riferimento, in fondo, fra le pieghe più profonde della filosofia, negando l’oggetto spazio.

Orbene si socchiude questa ricerca sulla coerenza del divenire, fra alcune soluzioni standard e non standard di alcuni paradossi del maestro Zenone: un labirinto magico, in cui un treno lanciato in una folle corsa diretta inesorabilmente verso il precipizio infinito e in cui un treno fermo in ogni istante in una folle attesa infinita di partire, dissolto in farfalle. Siamo arrivati a destinazione.


Note

[1] Cfr. Rossetti 2020.

[2] Simplicio, DK29B2.

[3] Platone, Parmenide, 128d.

[4] Parmenide, Perì Phýseos, fr. 8, 3.

[5] Ivi, fr. 8, 26.

[6] Ivi, fr. 7.

[7] Ivi, fr. 8, 25.

[8] Platone, Parmenide, 128a.

[9] Diogene Laerzio, DK29A1.

[10] Berti 1990, p. 24.

[11] Cfr. Sesto Empirico, PH III 64-81; Diogene Laerzio, VI 39.

[12] Cfr. Diogene Laerzio, VI 41.

[13] Aristotele, Fisica, 263a17.

[14] Platone, Parmenide, 128a.

[15] Simplicio, DK29A16.

[16] Reale 1987, p. 140.

[17] Colli 1998, p. 63.

[18] Zenone 2022, p. 26.

[19] Anassagora, Sulla natura (titolo convenzionale), fr. 3.

[20] Una presunta antica testimonianza, tratta dalla Suda, elenca quattro opere di Zenone: Contese; Esegesi delle opere di Empedocle; Contro i filosofi; Sulla natura (DK29A2). Questa testimonianza collide con quella di Platone che parla solo di un trattato di Zenone (Parmenide, 127A-B), la quale a sua volta collide con la testimonianza di Simplicio che mostra di avere conoscenze dirette sugli argomenti contro la molteplicità, ma non in riguardo al moto, lasciando presagire l’ombra di più libri o di sezioni non note. Anche perché, a riprova della cautela verso i dossografi e storici antichi, non c’è indicazione del titolo in cui sono stati pubblicati e diffusi gli argomenti di Zenone, anche se veniva utilizzato come libro di testo nell’Accademia platonica. Si racconta però che qualcuno provò a rubargli lo scritto, così che non poté neppure decidere se pubblicarlo (Ivi). Non meno presunta dei suoi libri è la vita e la politica di Zenone. Sulle vicende della vita si sa poco: si parla di un viaggio ad Atene e, come è noto, di un suo incontro con Socrate, anche se «certamente» (Zenone 2022) l’incontro, uno dei più grandi incontri registrati, non è mai avvenuto, solo una presunta «invenzione [platonica] atta a migliorare la trama» (Dowden 2009). Invece le vicende sulla politica – col gioco dell’iperbole – lo vedono ucciso da tanti tiranni diversi in tanti modi diversi quante le testimonianze. Per esempio: Plutarco (Contro Colote) lo racconta che si morde la lingua e la sputa addosso al tiranno Demilo; Apollodoro (Cronaca) lo racconta ucciso dopo una tentata cospirazione contro un tiranno, fra tormenti da lui coraggiosamente affrontati; Diogene Laerzio (Vita dei filosofi, IX), cercando di restituire quasi tutti gli elementi della tradizione più accreditata, lo racconta mentre morsica l’orecchio del tiranno Nearco prima di essere trafitto. In un alone di irricostruibilità delle vicende politiche di Zenone. Ma ancor più controversi dei libri, della vita e della politica di Zenone, sono i veri scopi dei suoi paradossi, i quali orbitano da (i. Platone-Aristotele) il loro sostegno apologetico e indefesso a Parmenide, a (ii. Eudemo, studente di Aristotele) la loro sfida simultanea sia al pluralismo che al monismo, o come dice Cousin V. (1847, Fragments philosophiques) il loro sforzo per mostrare che occorre conciliare la pluralità con l’unità, sino a (iii. Tennery-Wallace) la loro esclusiva sfida eleata, di continuo compatto uno, ai pitagorici, di un insieme discontinuo. Con conseguenti acclamazioni, a seconda dei tempi, da parte di eternisti contro il movimento (i), nichilisti contro ogni cosa (ii), empiristi dalla sola verità esperienziale, scettici, eristi, dialeteisti ecc. 

[21] Proclo, I, 694, 23.

[22] Platone, Fedro, 261d.

[23] Bonaventuri Cavalieri (1635, Geometria indivisibilibus continuorum nova quadam ratione promota) propone un metodo geometrico per scomporre i volumi in superfici, le superfici in rette, le rette in punti. Chiamato metodo degli indivisibili e che si appresta ad avviare la disputa con il metodo di esaustione fin lì dominante. (i) Il rigoroso metodo di esaustione – nome introdotto nel XVII secolo – fa uso della dimostrazione per assurdo ma non ha un valore euristico, cioè non giunge a un risultato ma dimostra, per assurdo, la tesi precedentemente presupposta: il punto culminante dell’esaustione nell’antichità è il III secolo a.C., Archimede, mentre la sua origine è il IV secolo a.C., Eudosso di Cnido, da cui il postulato di Eudoso-Archimede “esiste un multiplo del minore che supera il maggiore”. (ii) Il disinvolto metodo degli indivisibili ha un valore euristico, nel senso che porta a realizzare dimostrazioni costruttive, a trovare risultati e non a dimostrare quelli esistenti: nasce nel XVI secolo dalla ricerca di un gruppo di matematici – Kepler, Cavalieri, de Roberval, Torricelli – ed è spesso sintetizzato come momento chiave per la nascita del successivo calcolo infinitesimale, anche se ancora privo di un modello adeguato per comporre il continuo con gli indivisibili, privo, come dice Carruccio, «di un metodo di analisi infinitesimale algoritmicamente sistemata» (1972, Matematiche elementari da un punto di vista superiore); ma di cui il principio di Cavalieri è la proposizione fondamentale, la quale, in un suo aspetto, declina in «una figura circoscritta che supera l’iscritta per una grandezza minore di qualsiasi grandezza del medesimo genere» (Paul Guldin, cit. in Cavalieri 1989, Geometria degli indivisibili). (iii) In conclusione, chi volesse risalire alle origini dei metodi infinitesimali, potrebbe sì risalire alla filosofia greca del IV secolo a.C., trovando però solo metodi altri per trattare i problemi di ambito del calcolo integrale, e potrebbe si risalire al fervore del XVI secolo, trovando però l’assenza di un metodo per comporre un intervallo tramite infinitesimali. Parrebbe allora che avrebbe da aspettare Leibniz e Newton per una reale prima progenie della moderna Analisi matematica, in cui tutti gli ingredienti sono presenti per la fucina a venire.

[24] Fontana e Toffalori 2020, pp. 182-191.

[25] Abraham Robinson (1966, Non standard Analysis) introduce e formalizza i numeri iperreali. Si intende tale categoria dei numeri iperreali come l’insieme dei reali, degli infinitesimi (numeri infinitamente vicini allo zero), dei reciproci degli infinitesimi (numeri infinitamente vicini all’infinito). Il carattere degli infinitesimi x è di essere talmente piccoli da non interagire con le grandezze dei numeri reali x+n=n pur essendo x diverso da zero. Ciò pone gli infinitesimi come grandezze non omogenee ai numeri reali, non euclidei (Euclide, Elementi, Definizione V.4: «si dice che hanno fra loro rapporto le grandezze le quali possono, se moltiplicate, superarsi reciprocamente»), fuori dal postulato di Eudosso-Archimede («data una qualunque grandezza B e una grandezze A anche piccolissima, esiste sempre un intero naturale n tale che nA>B»), giacché non esiste nessun numero finito che diviso per un altro numero finito è in grado di restituire un numero più piccolo di un numero infinitesimo 0<x<1/n. Come d’altronde, per reciprocità, sono non archimedei neanche i numeri illimitati y: non esiste nessun numero finito che moltiplicato per un altro numero finito è in grado di produrre un numero più grande di un numero illimitato ∞>y>1+n. I numeri illimitati sono anche detti numeri interi infiniti, trattasi di grandezze non quantificabili, non misurabili, assorbenti n+y=y e iperestese ∞>y>1+n. Anche gli infinitesimi sono grandezze non quantificabili, non misurabili, ma li diciamo sovrasensibili x+n=n e indivisibili 0<x<1/n, inestese. Nel nostro discorso, i punti x sono rappresentati da particolari tipi di numeri infinitesimi, descritti conseguentemente come sovrasensibili x+n=n e indivisibili 0<x<1/n. E benché un grillo possa forse immaginare che i punti potrebbero essere addirittura costruiti come numeri oltre la serie infinitesima, essi comunque conservano le proprietà di sovrasensibile e indivisibile.

[26] Zellini 1980, p. 124.

[27] William I. McLaughlin (1994, Resolving Zeno’s Paradoxes) intuisce uno dei processi anche da noi adottati: affrontare i paradossi della divisibilità infinita di Zenone attraverso anche il modello non standard di Robinson. Assume quindi che, la serie convergente di Achille, prosegua oltre la retta dei numeri reali, estendendosi ai numeri iperreali, e quindi ai loro numeri infinitesimi e illimitati che per definizione non sono soggetti a osservazione e misurazione: così che il continuum si rappresenti tramite la retta dei numeri iperreali (Cfr. Nota 25). A questo punto però, invece di volgere l’indagine in positivo, McLaughlin si appella a principi monchi che non hanno campo di indagine sulla questione, ma secondo cui: principio epistemologico, non siamo responsabili di spiegare situazioni che non possiamo osservare. Così concludendo: «rifiutiamo la sua argomentazione [di Zenone] basata su queste entità, perché inosservabili». Di seguito affermando di aver risolto, con ciò, la questione completa, quando invece si è solo svincolato da una risposta positiva, implicando che la verità del sensibile e del discreto è sufficiente a negare la discussione sul continuum, la ragione e la loro verità: una soluzione buona per un buon preconcetto, ma non in grado di rispondere alle nostre domande; salvo poi venirci a rispondere con un argomento matematico in cui tratta numeri infinitesimi e illimitati – strumento che adopero più avanti, in maniera personalizzata principalmente nella nozione di somma totale e non di somma parziale.

[28] Ceravolo 2022, cap. 17.

[29] Gregorio da S. Vincenzo (1647, Quadratura circuii), per quel che se ne sa, è il primo che ha calcolato la quantità d/(Vv), quando ha affrontato il problema di Achille e la Tartaruga utilizzando la sua teoria delle serie infinite, uno dei primi abbozzi di tale disciplina. Per il calcolo particolareggiato della detta quantità d/(Vv) cfr. Fano 2012, pp. 46-50.

[30] Aristotele, Fisica, 239 b26-28.

[31] Whitehead 1929, pp. 163-165.

[32] George Cantor, con la sua costruzione della corrispondenza fra i punti della retta geometrica e la retta dei numeri reali, manca dell’affermazione per cui ogni numero reale corrisponde a un punto della retta. Essa afferma infatti solo che i punti della retta, comunque costruiti, hanno un corrispondente in un numero reale (Cfr. Fano 2012, pp. 80-81). Per altra considerazione, i punti geometrici sono rappresentati qua da numeri assenti nella retta dei numeri reali, sono numeri infinitesimi che estendono la retta dei numeri reali ai numeri iperreali. Di conseguenza rappresentiamo matematicamente il continuum con il modello non standard dei numeri iperreali. Dopodiché, nel sensibile gli interscambi avvengono tramite punti materiali estesi, così i punti geometrici a dimensione zero, infinitamente vicini allo zero ma diversi da zero, estendendo il mondo sensibile al mondo sovrasensibile. 

[33] Koyré 1922, pp. 9-10.

[34] Toth 1994, pp. 6-9.

[35] Aristotele, Fisica, 239 b12-14: «ciò che si sta muovendo verso il traguardo deve prima giungere alla metà». Alcune versione della Dicotomia arrivano prima alla metà, poi alla metà successiva ecc, invece che alla metà precedente come nella formula riportata in chiaro.

[36] Niels Bohr, fisico a cui viene solitamente attribuita questa citazione, citazione celebre per rappresentare la natura controintuitiva della meccanica quantistica: essa riflette una fisica capace di accettare la misura anche quando sconvolge il senso comune o anche quando non si riesce a spiegarla. George Cantor (1877 in una lettera a Dedekind del 29 giugno) nella citazione si riferisce alla sua dimostrazione matematica (1878) per cui nel continuum i punti di un segmento sono equinumerosi ai punti di una retta. Entrambi vengono qui citati impropriamente al solo scopo di fermare quanto sancito dalla matematica delle serie convergenti all’infinito: un risultato definito che per tale matematicamente permette il movimento sul paradosso di Zenone; checché ne dicano gli spettatori, sconvolti (Bohr) o increduli (Cantor).

[37] Peter 2003, p. 5.

[38] McLaughlin 1994, p. 84.

[39] Richiamiamo la struttura generale della teoria delle dimensioni formulata Karl Menger (1928, Dimensiontheorie) divulgata da Friedrich Waismann (1936, Einführung in das mathematische Denken): l’insieme vuoto ha dimensione -1, il punto ha dimensione 0, il segmento ha dimensione 1 ecc. O se si vuole ricorre a una generale numerazione pitagorica: il numero uno è un punto senza dimensioni, il numero due indica due punti che generano una retta a una dimensione, il numero tre sono tre punti non allineati che generano un triangolo di due dimensioni, il numero 4 un tetraedro nelle tre dimensioni.

[40] Seppur col proprio linguaggio, la Teoria è in essere nella attuale fisica, è sviluppata dalla teoria atomista di cui si hanno accenni in Leucippo, sviluppata poi da Democrito, sviluppata poi fino alla fisica moderna. Per essa il corpo è una struttura discreta i cui atomi sono distribuiti nello spazio secondo regole di discrezionalità, la cui distribuzione difforme e discreta di atomi definisce estensioni come lunghezza, area e volume, a propria misura.

[41] Le critiche alle limitazioni biologiche sulla grandezza del piede di Achille, affermano che se un posto x è irraggiungibile da una data posizione e passo, allora basta mettersi nella posizione adeguata da cui, quel dato passo, cada esattamente nel posto x. O come dice Dowden B. (2009, Zeno’s paradoxes): «i piedi di Achille non sono obbligati a fermarsi e ripartire in ciascuna di queste località a un’altra». Tali critiche non c’entrano però il bersaglio, giacché qua il posto x è di grandezza talmente infinitesima rispetto al piede di Achille da essergli non-locale; dove un intervallo infinitesimo – ricorda McLaughlin W.I. (1994, Resolving Zeno’s Paradoxes) – «non può mai essere catturato attraverso la misurazione», parimenti a un numero infinitesimo x posto oltre la retta dei numeri reali.

[42] Mazur 2007, p. 36. L’autore afferma che in una sequenza A, B, C, non si può passare in un istante da A a C perché altrimenti B non lo si potrebbe raggiungere in alcun istante. Affrontiamo l’inferenza applicando alla sequenza un “wormhole logico formale: il legame (B) fra due successivi punti (A e C)”.

[43] Palpacelli 2013, pp. 145-146. L’autrice disamina alcune asserzioni aristoteliche per le quali: (1) continuo è ciò i cui estremi sono uno; (2) contatto è ciò i cui estremi sono insieme; (3) consecutivo è ciò che non ha nulla di affine come intermedio. Seguendo questa impostazione all’interno del nostro altro linguaggio, si ottiene una soluzione altra: l’asserzione per cui il continuo non ha estremi poiché i suoi estremi sono uno, può interpretarsi come una retta infinita curvata, i cui estremi si toccano in uno, dissolvendosi. Tale dissolto uno è il punto che non ha estremi, distribuito su tutta la retta, definendosi limite indivisibile del continuum, di un’immagine controintuitiva: (forse) due punti successivi a distanza nulla senza toccarsi.

[44] Supercompiti: la possibilità di realizzare un insieme infinito di atti in un tempo finito. Benché sottolineati già da Simplicio nel suo commento alla Fisica di Aristotele, il primo a sollevarne la questione in un dibattito più recente è Wìsdom O.J. (1941, Why Achilles does not Fail to Catch the Tortoise). Alcuni cursori di tale dibattito: Russell (1910/1913, Principia mathematiça) innesca il dibattito affermando che in due insiemi infiniti l’equinumerosità non impedisce il fatto che uno sia più grande dell’altro. Broad C. (1913, Note on Achilles and the Tortoise) lo informa che la soluzione non è storicamente fondata, non inerente al problema, facendo ritrarre Russell (1914, Knowledge of the External World) alla più circostanziale costatazione che una somma infinita di intervalli temporali non necessariamente comporta un tempo infinito. James W. (1911, Some Problems of Philosopyi) vede in Zenone la prova che lo spazio non è continuo. Peirce (1931-58, Collected Papers) sembra confermare che se viene concepito il continuum allora il compito di toccare tutti questi punti non è realizzabile. Whitehead (1929, Process and Reality), coautore dei Principia mathematiça, archivia Achille come fallacia matematica, finché dipende dal fraintendere la natura delle serie infinite e la loro convergenza. Siamo nel 1936 e Turing (On Computable Numbers, with an Application to the Entscheidungsproblem) dà alla luce i computer, implicando una computazione solvibile solo se c’è una macchina di Turing che provvede analiticamente al suo interno, sebbene tali computazioni possano supera ogni prevedibile limite di ragionevole attesa. Mentre Black M. (1951, Achille e la tartaruga) afferma che non possiamo di fatto eseguire completamente una somma infinita ma dobbiamo stabilire quale sia il limite a cui tale somma infinita converge; gli fa osservazione Thomson J.F. (1954, Tasks and super-tasks) coniando il termine “super-taks” e osservando che mentre non è possibile eseguire l’azione finale di un supercompito, è invece possibile eseguire ogni passaggio nel supercompito. Tale completamento di ogni passaggio può conseguirsi al limite della serie che per Zellini P. (1980, Breve storia dell’infinito) va raggiunto rinunciando all’analisi indefinita, ponendosi in un punto di riferimento esterno. E poi ancora, oltre questo centennio, sia prima, che dopo. Alcune varietà di supercompiti in Manchak J.B. e Bryan W.R., (2009, Supertasks) http://plato.stanford.edu/entries/spacetime-supertasks. Per nostro conto, data l’impossibilità di principio che si scorge nel completare passo dopo passo i supercompiti, introduciamo la Teoria del salto del continuum, cioè la possibilità di saltare/sintetizzare/Σ/intuire un insieme infinito di atti in un tempo finito; al fin di scendere nelle più profonde viscere dei moti zenoniani.

[45] Cfr. Gwiazda 2012.

[46] Royce 1899, p. 43.

[47] Cfr. Ferraioli e Noce 2019.

[48] Russell 1914, p. 116.

[49] Bussotti 2016, p. 76.

[50] Hegel 1812-1816, p. 148.

[51] A questo tema si lega l’argomento del grande e del piccolo di Zenone (Colli 1998, p. 91: «se esistono molte cose, allora ognuna di esse è piccola e grande al tempo stesso – tanto piccola da non avere grandezza alcuna, tanto grande da essere infinita»), il quale viene solitamente interpretato come segue: qualunque corpo comporta un numero illimitato di parti, (i) se le infinite parti di cui si compone il corpo hanno una misura positiva allora il loro composto ha grandezza infinita, da cui l’indefinitezza dell’essere, (ii) se invece le infinite parti di cui si compone il corpo hanno una misura nulla 0 allora il loro composto non ha grandezza, da cui l’inesistenza dell’essere. Noi superiamo questo dilemma zenoniano prendendo una terza via (iii), sulla scia della matematica per la quale una somma di infinite parti non necessariamente produce un numero infinito: esattamente, un po’ più in là, assumiamo che la somma infinita di infinitesimi quasi 0 può restituire un risultato finito. Unitamente a questo aut-aut zenoniano gli altri argomenti contro la molteplicità, come il concetto per cui l’infinito, non potendo essere né più né meno di quello che è, allora è finito (Simplicio, DKB3: «Se gli enti sono molti, è necessario che siano tanti quanti sono, e non più né meno. Ma se sono tanti quanti sono, saranno limitati. Se gli enti sono molti, sono infiniti: infatti in mezzo agli enti ce ne sono sempre altri, e in mezzo a questi di nuovo altri. E in tal modo gli enti sono infiniti»): ci vollero millenni prima che un Hegel scoperchiasse l’infinito globalmente determinato, altre centinaia di anni prima di dimostrare che fra due elementari fisici può esserci il vuoto quantico e non necessariamente un altro corpo fisico. Oppure come la nebbia per cui «se le cose sono molte,… devono essere sia simili che dissimili» (Platone, Parmenide, 127-9), immediatamente sciolta al sole platonico: «qualcosa è molti e una [sotto aspetti diversi]» (Ivi. 129d).

[52] Seppur col proprio linguaggio, la Teoria è in essere nella attuale geometria, è sviluppata dalla teoria assiomatica di Euclide fino alla geometria moderna. Per essa il corpo è una struttura continua i cui punti sono distribuiti nello spazio secondo regole di continuità, la cui distribuzione uniforme e continua di punti definisce estensioni come lunghezza, area e volume, oggetti misurabili.

[53] Cfr. Nota 27. Mantengo il nome dell’autore McLaughlin anche se questo calcolo si basa su somme totali e non parziali, e altre sottili varietà per le quali l’autore avrebbe diritto di dirsi estraneo al presente calcolo che porta il suo nome; benché siano innascondibili le sue influenze qua. Ulteriormente, confronta il calcolo con le serie geometriche convergenti all’infinito, interpretando x1 come il valore q di ragione della serie. Per esempio, nella serie geometrica in ragione q=1/2 abbiamo x1=1/2.

[54] Fritz 1971, p. 50. L’autore afferma «non è realizzabile».

[55] Aristotele, Fisica, 250a19.

[56] Colli 1998, pp. 132-133.

[57] Dowden 2009.

[58] Ryle 1954, p. 41: «Achille [è] un enigma filosofico, non già un problema aritmetico». Sovente si sente che la soluzione ai problemi di Zenone è più complessa di semplici calcoli matematici, a cui segue, a volte, l’esposizione di ulteriori soluzioni, anche attendibili, di cui nessuna, a ben vedere, è sufficiente da sola a risolvere completamente Zenone. È giusto obiettare che neanche la matematica è in grado di risolvere da sola l’interezza dei paradossi zenoniani, quanto è vero che senza il risultato aritmetico, ai suoi detrattori, sarebbe toccato convincere che 2+2=5, cosa che ora invece spetta ai nostri di detrattori. E questo è cruciale: la raffinatezza dell’eleata è interdisciplinare, e, per finirla dopo la sentenza aritmetica, ho contato i colpi incrociati di almeno cinque armi mangiafuoco: matematica, logica, arte, fisica, filosofia. Un pentagono in grado di contenere ogni più sfacciato incremento o diminuzione, un geometrico chiamato “zenocidio”.

[59] Priest 2006, p. 174.

[60] Mellor 1998, p. 90.

[61] Fano 2012, pp. 35-36.

[62] La Teoria at-at è la teoria standard del movimento, chiamata concezione comparativa del movimento e del cambiamento. Per essa il divenire è costituito da punti o istanti successivi, e per essa il divenire è attestato dal suo accadere in punti e istanti successivi. Un luogo classico per questa definizione è Newton (1687, Philosophiae Naturalis Principia Mathematica). Un luogo critico per questa definizione è Kant (1781, Kritik der reinen Vernunft) per cui il divenire del tempo è una successione ordinata 1,2,3,… in cui il concetto di numero è la stessa generazione del tempo mediante la successione di unità; e per cui – semplifichiamo – il divenire dello spazio è la stessa successione di grandezze della geometria. Un luogo ortodosso per questa definizione è Russell (1903, The principles of mathematics) per il quale il moto consiste nell’occupazione di posti differenti in istanti differenti, occupazione soggetta alla continuità e per cui non esiste transazione da posto a posto, niente di simile alla velocità se non nel caso di un numero reale come limite di una serie  di quozienti, quindi senza necessità di postulare lo stato di moto. L’immobilità della teoria at-at, illuminata da Zenone, incontra critici anche successivi al suo istaurarsi come teoria standard del movimento. Dapprima, prima di questo istaurarsi, lo Stagirita (IV secolo a.C., Fisica) contesta che il tempo si componga di istanti e che il moto sia definibile rispetto a essi. Successivamente alcuni critici cercano di risolvere l’immobilità zenoniana assumendo la “contraddizione reale del movimento”: come Hegel (1812-1816, Wissenschaft der Logik) per il quale la freccia di Zenone è la riprova che il moto avviene istantaneamente dimodoché l’oggetto si trovi simultaneamente in luoghi diversi, dove invece Hamilton W. (1882, Lectures on Metaphysics and Logics) vede l’impossibilità della mente di pensare il movimento perché implica contraddizione, o, ancora, la «spread hypothesis» di ispirazione hegeliana di Priest G. (2006,  In Contradiction: A Study of the Transconsistent): qualcosa si muove solo perché è multi-locata quindi, a ogni istante x, è distribuita per tutti i punti ±ε dell’intorno relativo di quell’istante x, cosicché a ogni istante l’oggetto sia ancora dove era già stato x−ε e sia già dove non è ancora stato x+ε. Altri critici cercano invece di risolvere l’immobilità zenoniana teorizzando un diverso concetto di movimento, cercando di postulare lo stato di moto: per esempio Heidegger (1927, Sein und Zeit) afferma che l’esserci non esiste come somma delle realtà effettuali istantanee di vissuti che vengono uno dopo l’altro e poi scompaiono, ma il suo esser proprio è costituito come estensione, mentre Bergson (1970, The cinematographic view of becoming) indica la at-at come la concezione “cinematografica” del tempo poiché definisce il moto come una sequenza di immagini istantanee in ciascuna delle quali l’oggetto è in posizioni definite, ferme, senza movimento né dei suoi fotogrammi né del suo insieme ordinato; quando il moto – dice Bergson – è invece ciò che avviene nel frattempo fra due diversi fotogrammi e che perciò sfugge alla comprensione che li spazializza e immobilizza, offrendosi solo nell’intuizione o percezione di un tempo intero di durata indivisibile. Altri critici ancora tornano allo Stagirita, come Caratheodory C. (1963, Algebraic Theory of Measure and integration) che, con formalismi ingombranti, costruisce una geometria costituita da regioni e non da punti, la quale permette di attuare rigorosamente l’idea aristotelica di un tempo non consistente di istanti, o come Peter L. (2003, Zeno’s Paradoxes: A Timely Solution) che, su una imprecisata ridefinizione einsteiniana del presente, afferma alcun statico istante sottostante al movimento, poiché il movimento è in movimento in ogni momento, sulle linee di Herbart (1850, Lehrbuch zur Einleitung in die Philosophie) per il quale il movimento non può affermarsi che sia in qualche luogo. Per nostra parte intendiamo il divenire come il processo/operazione da cui si danno gli istanti spaziali della at-at: distinguendo i termini dell’operazione di x (i fotogrammi di x, siano essi istanti del suo scorrere temporale o punti del suo moto spaziale) dall’operazione di x che li genera. Concludendo, per codesta filosofia, il divenire è l’operazione f di x da cui appaiono i diversi istanti temporali t1, t2,… o punti spaziali A, B,… di x medesimo.

[63] Bergson 1970, p. 65.

[64] Aristotele, Fisica, 201a25-29.

[65] Cfr. Ceravolo 2021.                          

[66] La Teoria medievale dell’impeto, anticipata da Giovanni Filipono (VI secolo) e sviluppata da Giovanni Buridano (XIV secolo), descrive la forza impressa dall’agente sul corpo, causandone il movimento fino alla dissipazione dell’impeto stesso, e introduce al concetto primitivo di moto inerziale cioè di una quantità di moto che rimane costante in assenza di forze esterne. L’impeto provoca movimento, definendo una grandezza cinematica – “la quantità di moto dell’impeto” – in aggiunta alla posizione hamiltoniana. Una grandezza capace di descrivere il tasso di variazione del corpo nel corso del tempo e quindi una grandezza che per definizione dovrebbe essere sempre uguale al tasso di variazione del corpo. Con tale Teoria medievale, il corpo acquisisce due diversi tipi di velocità che dovrebbero coincidere: il tasso di variazione e il moto dell’impeto. Altresì ha due grandezze cinematiche che dovrebbero coincidere: la posizione hamiltoniana e la quantità dell’impeto. Con il rasoio di Ockham, a parità di condizioni, nel nostro discorso potremmo sbarazzarci di questa quantità impetuosa come surplus (o aspetto archeologico) di un piano ontologico evolutosi. In ogni modo, sia il tasso di variazione sia il moto dell’impeto, descrivendo variazioni ed essendo variazioni, sono strumenti inutili all’istante v≈0 senza variazioni.

[67] Cfr. Arntzenius 2000, pp. 187-208.

[68] Cfr. Priest  nota 62. La nostra divergenza non sta solo presso profondità teoriche (Cfr. Ceravolo 2022, cap. 13), ma qua si manifesta tecnicamente, poiché la proposta priestiana di origine hegeliana, accettata la contraddizione su più posizioni, mentre da noi è invece ancora controllata la sovrapposizione su un vettore a più direzioni (verso passato e verso futuro).

[69] Heidegger 1927, p. 461.

[70] Laurenzio G.L. (De mensibus, III 11, p. 41) racconta che presso i Greci e i Romani il tempo era suddiviso in molti modi: la durata eterna di Aión, l’età; il momento incessante di Chronos, il tempo rettilineo; la ripetizione ciclica di Eniautós, il tempo circolare; la tempestività di Kairós, il momento creativo e fecondo di felicità culminante. Questi quattro modi del tempo lo descrivono avente durata. Diverso è invece l’attimo platonico (Parmenide, 156 d-e), l’exaíphnes: l’istante improvviso, posto fra il movimento e la stasi, né in stasi né in movimento, qualcosa che non è in alcun tempo, ma ciò a partire da cui c’è mutamento, quindi da cui sorgono Aión, Chronos, Eniautós, Kairós. Un exaíphnes attorno cui aleggia inconsapevole Bachelard (1934, L’Intuition de l’instant) per il quale tutto il reale si condensa nell’istante e ogni nuova èra si apre con un istante creatore assoluto. Un istante improvviso, un istante creatore assoluto, un istante di altro tipo dall’istante continuo trattato in questo saggio. Per Aristotele (Fisica, IV), con buon principio di carica stante le sue sporadiche confusioni fra i concetti di istante e presente: l’istante è inesteso ed esiste come limite fra “prima” e “dopo”, non fa parte del tempo, ma segna il suo fluire; mentre il presente ha una estensione legata alla coscienza, la quale non può percepire l’istante perché è senza durata. Per Sant’Agostino (Confessioni, XI) il presente non può essere fissato in un istante, perché è esteso, una sorta di estensione psicologica che include memoria e aspettativa. Per Bergson (1889, Essai sur les données immédiates de la conscience) l’istante è un costrutto statico atto a descrivere il tempo in ambito scientifico, mentre il presente è un processo dinamico dell’esperienza vissuta. Per Heidegger (1927, Sein und Zeit) l’istante è un punto isolato non in grado di riflettere la dinamica dell’essere, mentre è tramite il presente che l’essere è “gettato” nel mondo, nel suo esser-ci proiettato al futuro e radicato nel passato. In ambito scientifico invece, dove domina la teoria at-at (Cfr. Nota 62) e dove si tende a togliere dal tempo la durata e dal movimento la mobilità (Bergson, op. cit.), l’istante è l’unità di misurazione del tempo, mentre il presente, come durata, non solo è trascurato, ma talvolta perfino messo in discussione: Es. L’istante quantistico che con i suoi quantum mette in discussione il flusso del presente, o la relatività di Einstein che mette in discussione la definizione di simultaneità tra eventi e quindi la definizione di presente.

[71] Levi 1919, p. 79.

[72] Non ho trovato libro o saggio che catturasse in un quadro generale le diverse velocità. C’è chi tratta questa o quella velocità, o questa in rapporto a quella, o la velocità in generale, l’accelerazione, il momento, la dinamica, ma nessun piano organico e specifico su questo specifico tema: la classificazione delle velocità, la loro forma comune, eccetera. Ho allora incominciato, le descrizioni delle sette velocità, con un linguaggio comune per tutte, di modo da creare un’atmosfera unitaria, a cui ho poi fatto susseguire la descrizione classica di quel tipo di velocità, laddove esista una definizione standard di quel tipo di velocità. Lo stato dell’arte della velocità media (1) e della velocità istantanea (3), è avanzato e formalizzato: sono le definizioni di velocità più rilevanti e codificate, da cui abbiamo dedotto, per conseguenza formale, le altre. Della velocità media (1) si ha un’esposizione rigorosa già da Galilei (1638, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze), mentre per la velocità istantanea (3) bisogna aspettare la sua formalizzazione rigorosa tramite il calcolo infinitesimale di Leibniz e Newton XVII secolo. Un buono stato di riconoscimento c’è anche per la staticità (3), già da Aristotele (Fisica VII), per il quale rappresenta lo stato naturale di riposo, o ancora Netwon che la definisce come assenza di moto; sebbene venga descritta sempre in termini diversi dal quadro sistemico qua dedotto. Si deve notare che la velocità per variazione di tempo unitaria (5), potrebbe sembrare non apportare contributi al concetto di velocità, per quanto matematicamente valida, in quanto introduce informazioni a noi già note nella velocità media (1) e istantanea (3), le quali infatti già vengono calcolate per unità di tempo. Eppur si muove: “la velocità media definisce il rapporto fra spazio e tempo come velocità, ma ancora non ci dice con quale unità temporale calcoliamo questo rapporto e su quale unità spaziale; queste unità spaziotemporali sono invece definite dalla velocità per variazione di tempo unitaria (5) e per variazione di spazio unitaria (6), quasi insinuando una velocità individuale v1 indicante, entro certi limiti, l’unità di misura, la propria unità, l’oggetto di misura.” Arreca disagi anche la velocità per variazione di spazio unitaria (6), che sembra quasi collegarsi al concetto di inverso della velocità, giacché, differentemente dalle altre, non calcola la velocità ma quella che occorre: forse utile dove si analizzano unità di lunghezza definite o quando potrebbe servire sapere quanto occorre per percorrere o spostare una certa unità spaziale, o come in certi contesti di velocità delle onde o di moti dei fluidi. Non c’è certo bisogno di convincere che l’immobilità (4) è la fonte di maggiore disagio fra le presenti sette velocità, da quando Einstein (1916, Relativity: The Special and General Theory) ha decretato che la nozione di immobilità è relativa e non esiste un sistema di riferimento universale completamente immobile; riferendosi però all’interno di un sistema di riferimento e certamente al fatto che nessun sistema relativo può dirsi il riferimento assoluto di un altro, e altrettanto certamente aberrando il concetto di immobilità dall’indagine fisica, ormai custodito razionalmente fra le mani di poca temeraria filosofia. A mia discolpa devo annotare che ho solo seguito alcune curiose forme che fuggivano lungo il cammino zenoniano, ritrovandomi qua: fronte a sette casi di velocità sistemica.

[73] Manchak e Roberts 2009, p.21.

[74] Cfr. Catalano 2020.

[75] Aristotele, Fisica, 239b33.

[76] Ivi, 2106 22.

[77] Ross 1936, p. 565.

[78] Ceravolo 2016, p. 13.

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2 thoughts on “ALLA RICERCA DELLA COERENZA DEL DIVENIRE: ZENONE DI ELEA

  1. Su un argomento trattato così approfonditamente dall’Onorevole Vito J. Ceravolo, l’unica cosa che posso sommariamente commentare, visti i fenomeni del mondo odierno, è che la vita con la conoscenza empirica, in un mondo con la profondità del Logos, è una tragedia.

  2. Su un argomento trattato così approfonditamente dall’Onorevole Vito J. Ceravolo, l’unica cosa che posso sommariamente commentare, visti i fenomeni del mondo odierno, è che la vita con la conoscenza empirica, in un mondo con la profondità del Logos, è una tragedia.

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