Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

La fragilità dell’anima

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La malinconia come rivelazione della nostra condizione esistenziale

La malinconia descrive la drammatica imperfezione della vita e della profondità umana, in questo fondo dell’essere non sembrano esserci zone protette.

Nella sua refrattarietà a ogni definizione univoca, la malinconia fa emergere una più radicale resistenza ad un sapere aggressivo, che vuole normare l’esperienza senza tenere conto dell’originalità e imprevedibilità dell’iniziativa personale. Non è possibile delineare con precisione l’origine e il motivo di tale esperienza, che si fonda su una sorta di mancanza, di distanza di qualcosa di cui non si sa riconoscere l’oggetto, né dire che cos’è.

 Più si riflette e si abbraccia la condizione umana, più il dolore si fa largo nei pensieri. La malinconia è capace di farci approdare a lidi nascosti della nostra interiorità, ci accompagna a visitare gli abissi del nostro essere, in un processo di conoscenza graduale.

Pensiamo e soffriamo. Il tempo in cui viviamo è anestetizzato dalla ricerca frenetica del divertimento, un modo per non pensare a noi stessi, questo è il paradosso: nel mascherare la malinconia, propensione profondamente umana che ha a che fare con la costruzione dell’identità e con la ricerca del senso, il sistema sociale instilla in tutti noi i germi di una malinconia profonda che non vogliamo ammettere. La repressione dei sentimenti più pericolosi ci ha resi apparentemente felici, ma più sterili, incapaci di creare e vedere la bellezza.

Ansia, angoscia, preoccupazione, precarietà, frustrazione, indotte dalla nostra società della prestazione e dell’efficienza sono una forma di depressione. Perdiamo l’occasione di conoscerci ed esprimerci, schiavi della mediocrità, di un vivere senza sapere e senza senso. Non abbiamo occhi per le persone, ma solo per lo sfruttamento dei loro bisogni, ci si distrae da un malessere che nasce da uno stile di vita imposto.

La sofferenza fa parte della vita, bisogna imparare a soffrire senza soffocare ciò che di più profondo esiste in noi e cerca di parlarci. Non si ascoltano le parole che sgorgano dalla sofferenza, e che riproducono la condizione d’esistenza di ciascuno di noi.

Non si presta ascolto e non si dà speranza a chi soffre, non si riesce a perforare i muri della solitudine fino a quel taedium vitae che tutti, per brevi attimi, avvertiamo come nausea dell’esistenza. Si sopprime l’ascolto, si disumanizza l’uomo, disimpariamo il vocabolario emozionale, anche se sappiamo che tutte le parole dimenticate, diventano silenzi del cuore, che aprono a percorsi bui e insospettati, di cui ci accorgiamo solo quando è tardi. La malinconia di un adolescente o la sua angoscia implora ascolto, attenzione, eppure si ha più fiducia in un farmaco, anziché in uno sguardo comprensivo, in una parola che sa corrispondere all’abisso della disperazione. Imbocchiamo la strada che ci porta a tacitare l’anima per poi trovarci disarmati di fronte alle perturbazioni che neppure sappiamo più riconoscere.

La consapevolezza del senso di vuoto

Romano Guardini è l’autore che ha trattato con maggiore profondità del senso della malinconia nell’ottica cristiana.

La malinconia sorge dalla vulnerabilità; che non è il prodotto di carente forza interiore, quanto una singolare sensibilità dell’essere di uomini sui quali agiscono la complessità delle disposizioni e la spietatezza della vita, con le sue sofferenze inevitabili.

Da tale inevitabilità proviene la noia, non la pigrizia, non l’ozio, ma la noia.

La malinconia nella quale si inserisce la noia, è la dolorosa sensibilità a ciò che di difettoso e di incompiuto esiste in ogni cosa, è la sensibilità alla delusione e al senso di vuoto che deriva da tale consapevolezza. È’ un male che non dipende direttamente dalle circostanze e dai conflitti esterni, ma da una specie di affinità elettiva con tutto ciò che può ferire. Non guarisce con il successo, con la stima degli altri, e non desta meraviglia l’esito estremo che giunge fino all’autodistruzione. La malinconia è l’inquietudine dell’uomo che avverte la vicinanza dell’infinito. Questa possibile apertura a ciò che è eterno, superando il dolore presente permette di distinguere una malinconia buona da una cattiva. Quest’ultima consiste nell’assenza di quella apertura, nell’incapacità di pensarla e di passare dallo sconforto al recupero delle motivazioni.  Mentre la malinconia buona trae motivo da ciò che essa è, anche nei valori più nobili per vivere lo splendore, fragile, ma reale, dell’esistenza. Questa malinconia esprime lo spirito cristiano, pienezza di bontà, volontà di comunione con tutti gli esseri. L’uomo malinconico, afferma Guardini, è troppo imparentato con la sofferenza per essere duro. Si diventa crudeli quando la disperazione non sa più correre al soccorso di sé stessa, quando l’uomo perde la bontà, allora è in grado di far del male nello stesso modo che la vita fa male a lui. L’uomo spaesato è colui che persi i punti di riferimento, non possiede e non può trasmettere salde ragioni di vita e di speranza.

Guardini nel suo testo, Ritratto della malinconia, ha tentato di porre questo tema in prospettiva più propriamente filosofica. La complessità della vita necessita di un metodo d’osservazione che proceda in una condizione capace di cogliere una verità che è sempre polifona. L’abisso della malinconia non è mai definitivo, ma il polo di un’unità non frammentata in cui è già contenuto il suo opposto. Pensare, scrive Guardini, è quel dato di fatto che suscita continuamente lo stupore esistenziale, il più grande pericolo per l’uomo del suo tempo è essere intaccato proprio in ciò che ne costituisce l’ultima garanzia d’unicità. La persona sembra avvertire una sorta di stanchezza verso sé stessa, non si concepisce come quella potenzialità d’azione e di novità di cui è capace.

Il peso e l’oppressione per la responsabilità verso i propri limiti divengono fattori di una solitudine, che spesso non trova intesa, conforto: così, ciò che naturalmente potrebbe volgersi ad un’apertura dell’essere si riflette nell’unica esigenza di trovare il modo di alleviare ed eliminare quel limite, è la noia di convivere sempre e solo con sé, con un sé spesso sconosciuto. La malinconia si incontra quando ci si addentra nelle profondità dell’esistenza personale, e ci si sorprende di fronte allo svelarsi della sorgente dell’inquietudine, della fragilità, dove si manifesta la criticità della nostra condizione umana.  La malinconia genera una riflessione paralizzante, non quella necessaria alla soggettività per conoscersi, ma una riflessività incapace di vedere oltre, un’identità ferma, che frattura il nesso tra l’io e le cose, una chiusura narcisistica che tenta di eludere la dipendenza dell’essere, il fatto di non poter essere la totalità e non poterla dominare.

Si tratta di un rapporto erroneo con l’assoluto; lo si vorrebbe cogliere nella sua immediatezza, dimenticando il limite, che di fatto costituisce l’essenza umana.

Così appare la malinconia, come il rimpianto per una realtà e un passato che non riesce a corrispondere all’esigenza dello spirito, la spietatezza di un’ora in cui nulla sembra poter accadere, non c’è partecipazione alla propria esistenza. È l’incapacità di vedere il presente, la percezione di oscillare tra un passato che non esiste più e un futuro che si ritrae continuamente.

Al silenzio che ciascuno sente dentro di sé, la malinconia unisce l’insopportabile percezione della incompiutezza delle cose, dell’imperfezione degli esseri umani, del vuoto e della disillusione di ogni esperienza.

Sembra paradossale dire che la malinconia va preservata perché da essa si avvia l’autentica relazione con il mondo. Vi è una malinconia positiva che si acuisce quanto più si fa esperienza dell’insufficienza del mondo, della finitezza dell’esistenza.

La condizione umana è instabile, manca un punto di appoggio, una certezza; con la malinconia emerge un carattere equivoco, in perenne opposizione tra l’anelito alla realizzazione e quello alla distruzione. Se la percezione si ferma su questo contrasto, la vita diventa impossibile in un’angoscia priva di qualsiasi speranza, di qualsiasi varco: questo fondo dell’esistenza non può che destare paralisi, poiché non ha la difficoltà di una sfida, ma la fissità di uno spazio in cui non si intravede via d’uscita. Ma se, anche solo per un attimo, l’angoscia può volgersi e vedere la realtà, incontrare una corrispondenza con ciò che attende, si ha una luce nuova sull’esperienza intera, offrendo l’occasione di rimettersi nell’unico spazio, in cui l’incontro con il mondo è possibile, vale a dire: il limite.

 Continua ad esserci nella malinconia il desiderio di incontrare l’assoluto nella forma della bellezza e dell’amore. Accanto alla malinconia che toglie valore, che svuota di contenuto, che spinge nel vuoto, persiste il desiderio di una bellezza infinita, di vivere ciò che è vulnerabile, imperfetto, ma reale, di incontrare un altro essere umano, per il quale provare vicinanza e di incontrare e riconoscere, ancora una volta, sé stessi. L’esperienza della malinconia porta con sé il dramma della vita e della morte e impone l’umiltà e la semplicità di non poter rispondere. Vi è l’idea di una promessa tradita, dimenticata. La percezione di quella promessa perduta significa sempre che una sorta di promessa sia prima avvenuta, e che essa coinvolge altri da sé: tale è la ragione per cui si attende ancora qualcosa, per cui si soffre, per cui non ci si arrende.

Il problema della vulnerabilità

La nostra cultura promuove una vita frenetica, superficiale e per reazione, predispone la fuga nella malinconia, che esprime il bisogno di interiorizzazione.

La si può nascondere, la si può negare, ma la malinconia è una costante dell’uomo, la radice del suo autoisolamento. Quando si è in questa condizione, l’unica certezza è data dalla routine, che dà la falsa sensazione di essere al sicuro. È evidente che si tratta di una sicurezza totalmente falsa: nessuno può controllare niente. Si teme la noia e tuttavia si desidera che non succeda niente di nuovo. Esiste anche la malinconia come rimpianto per il tempo che precipita inesorabilmente verso il passato. L’errore della vita è proprio la nostalgia: gli uomini dovrebbero amare la vita che vivono, e non la vita che vorrebbero. In questo squilibrio tra la vita che vivono e la vita che desiderano è tutta l’infelicità umana. La nostra comunicazione è superficiale, eppure ci sono parole capaci di essere farmaco, a contatto con l’indicibilità del dolore, capaci di curare e cambiare la vita. Nel nostro mondo della distrazione, andare verso una comunicazione ritrovata significa incontrare il silenzio, la solitudine. Perché la parola chiama sempre a una responsabilità, tanto più grande quando il volto che si ha di fronte è quello del malato, lì la cura della parola, in bilico tra il dire e il non dire, è tanto più necessaria. Si è incapaci di guardare dentro di sé e di ascoltare le proprie emozioni e quelle degli altri. La speranza si ferma nell’ascolto, in una società piena di contraddizioni, fatta di leggerezza, instabilità, mancanza di punti di riferimento; in un’atmosfera simile, la tristezza dilaga, ma allo stesso tempo si cerca di nasconderla. Non si ha tempo per mettersi in ascolto dell’altro, né per condividere la propria sofferenza, ma soprattutto, non si ha il coraggio di ascoltare sé stessi e scendere nella profondità oscura della propria anima. Il linguaggio e l’ascolto sono strumenti potentissimi, in grado di creare e distruggere, permettendoci di esplorare frontiere sempre nuove, ma siamo incapaci di entrare in contatto con la parte della società ferita, siamo poco allenati a vivere la comunità e la solidarietà, poco capaci di produrre un’autentica vicinanza.

Secondo l’etica della cura, la vita umana è quella di individui che vivono in interazione gli uni con gli altri, dove l’indipendenza delle persone adulte si fonda su una rete di rapporti. La sua cura è per sua stessa natura una sfida all’idea che gli individui siano interamente autonomi. Trovarsi nella situazione di aver bisogno di cura significa essere in una posizione di vulnerabilità. Riuscire a partire dalla vulnerabilità e dalla dipendenza consente di trasformare la percezione di ciò che ha valore. Chi si percepisce come indipendente non vede affatto la propria condizione di dipendenza e le relazioni di cura che sostengono la sua vita, al punto che la sua stessa concezione del valore della vita è plasmata da questo nascondimento. È solo partendo dalla condizione di vulnerabilità che possiamo esplorare la natura umana, i suoi bisogni e le relazioni che consentono di stare bene. Martha Nussbaum ha mostrato come nella vita personale e pubblica cerchiamo di nascondere a noi stessi gli aspetti fragili; con conseguenze dannose, in particolare proiettando sugli altri ciò che non riusciamo ad accettare in noi stessi. In La fragilità del bene, Nussbaum, ha sostenuto che non c’è conoscenza di ciò che è una vita umana, che non passi attraverso la conoscenza emotiva della sofferenza che fa parte della vita.

La fragilità umana

Il nostro tempo esalta l’impulso e il potere in tutte le sue forme.

Per questo si vuole eclissare la fragilità umana. Essa viene considerata come un handicap da celare, un’esperienza inutile, priva di senso, ma la fragilità fa parte della vita, è una struttura portante, una delle radici ontologiche. I filosofi sin dalle origini, testimoniano la fragilità dell’essere umano e la considerano come la caratteristica essenziale del suo essere nel mondo, segnato dall’esperienza del limite. La fragilità è condizione dell’umanità, fa parte del tessuto stesso del suo essere. Fragilità è parola che ha assunto nel nostro tempo una connotazione sempre più legata all’umano, avvertiamo più vivo il senso di fragilità quando ci imbattiamo in situazioni che sfuggono al nostro controllo. Ci sentiamo esposti alla possibilità che qualcosa si incrini nel nostro animo, constatiamo la fragilità delle relazioni, ciò può generare insicurezza, paura, angoscia, ma può anche aprire la porta alla comunicazione con l’altro e diventare terreno di crescita e di sviluppo.

L’esperienza concreta della fragilità rivela che, il bisogno di senso della vita, la ribellione di fronte alla sofferenza innocente, il desiderio che le persone che amiamo non ci vengano sottratte dalla morte, non possono essere acquietati per un decreto arbitrario della nostra volontà.

L’esposizione alla precarietà e contingenza dell’esistenza è evidente nell’atto stesso del nascere. Nasciamo da corpi e illusioni altrui, all’interno di azioni che ci connoteranno: il nome che ci è dato, le paure con cui siamo attesi, le aspettative, le condizioni sociali. Hannah Arendt , ha rilevato nella nascita, nella compresenza di dipendenza e libertà, la forza originaria della fragilità.

Il materiale che meglio rappresenta la fragilità della condizione umana è il vetro, come il vetro, l’essere umano è fragile.

Il rischio del vetro non è di rovinarsi, ma di frantumarsi. È fragile, è ciò che tende a rompersi. Anche il nostro corpo è fragile e come ci ricorda Simone Weil, può essere trafitto da qualsiasi pezzo di materia in movimento oppure può inceppare uno dei suoi congegni interni. Anche la nostra interiorità è fragile, vulnerabile perché soggetta a immotivati cambiamenti d’umore, in balia delle cose, e di altri esseri come noi, altrettanto fragili.

La nostra personalità, la trama delle relazioni sociali da cui dipendiamo e che ci costituisce, è sostanzialmente esposta al caos: tutto può ferirci e mettere in discussione la rappresentazione che abbiamo di noi stessi.

Non si tratta di valorizzare la fragilità e la debolezza in contrapposizione a un mondo virile e orientato al mito della forza, ma di riconoscere e mostrare come nella fragilità stia la forza intrinseca della vita umana, perché solo nel riconoscimento del nostro essere esposti alla non auto-sufficienza e vulnerabilità, al dipendere intimamente dagli altri, solo a partire da questo, gli oggetti del mondo mostrano la loro preziosità.

Riconoscimento della relazione, della cura come apertura alla responsabilità.

La fragilità si rivela come nostro bene più prezioso solo all’interno della relazione e della cura.

Primo Levi ha scritto che parte del nostro esistere risiede nell’anima di chi ci accosta. Ci sono condizioni o fasi fragili della vita in cui, la bellezza stessa dell’esistenza umana, si rivela attraverso ciò che più è vulnerabile, perché aperto alla nostra origine di nati e, dunque, originariamente assegnati all’interdipendenza della cura reciproca.

Pascal mette in risalto la tensione che più caratterizza l’uomo, tra grandezza e miseria. L’uomo è grande in forza del suo pensiero, ma proprio questa sua facoltà che lo eleva al di sopra di tutti gli esseri, lo fa scoprire miserabile. L’uomo è grande in questo: che si riconosce miserabile. L’uomo non trova nel tempo un punto fermo e nello spazio un centro. C’è un qui ed ora, momenti esili che compaiono e scompaiono.

È sorpreso e disorientato, è miserabile, ma è grande perché lo sa. Anche Heidegger si inoltra nell’analisi dell’esistenza umana, adottando il metodo dialettico del filosofo francese. Ma a differenza di Pascal, secondo Heidegger, l’uomo è soffocato senza alcuna via di scampo dall’angoscia e dal sovrastare della morte. Il nulla, davanti al quale sfocia l’angoscia, svela la nullità, che determina l’uomo nel suo fondamento.

L’uomo portando in sé il nulla è preso dall’angoscia. Si rende conto della propria fragilità, cui tenta invano di sottrarsi. Se pensa di riuscirci si inganna, e ingannandosi si rassegna a trascinare la vita miserabilmente in superficie. Per comodità si illude di non dover morire, ignora il suo desiderio ed evita il peso dell’angoscia, si perde così nell’insignificanza.

Senza angoscia la vita è meno dura, ma non è neppure vita, è solo apparenza ed illusione. L’uomo si trova in un vortice, assediato dal nulla. Il pensiero di Pascal e di Heidegger conducono ad un analogo risultato: l’uomo è un essere fragile per costituzione. Pascal scopre nella fede una via d’uscita che porta a un recupero dell’uomo. Heidegger lo lascia nella perplessità in cui è stato gettato fin dalla nascita.

Il dolore continua ad imperversare per il semplice motivo che l’essere umano è in sé stesso fragile e lo è tanto nella sua costituzione fisica, quanto nella sua costituzione psichica, dove si accumula l’angoscia.

Nessuna esistenza umana sembra poter sfuggire all’esperienza del dolore.

Nel dolore, l’umano si manifesta a sé nel modo di un’attualità inconsueta: come cogliendosi a partire da sé, a prescindere da ogni alterità. Ciò accade nell’impatto con la propria vulnerabilità, con una fragilità, con un’originaria possibilità della ferita, da sempre lì. Il dolore stravolge la temporalità consueta. Il normale fluire del tempo sembra concentrarsi sull’attimo, sull’impegno che esso richiede.

La sofferenza fisica è tale da arrestare il tempo e da fare del tempo un presente senza avvenire.

Il valore e il riconoscimento della fragilità

È sufficiente pensare alle parole di Pascal: l’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Filosofi, letterati e poeti trovano nella fragilità esistenziale la sorgente feconda per stendere versi di una straordinaria profondità evocativa, eppure non ci fa piacere riconoscerci fragili, quindi, costruiamo giudizi a priori e diventiamo giudici di noi stessi e degli altri.

Fragile è spesso usato come sinonimo di inconsistente, effimero, debole, usato in senso negativo. Ma occorre svincolare il termine dalla negatività per diventare qualcos’altro, come delicato, vulnerabile, sensibile.

 È nell’estrema fragilità che si scopre la grandezza della vocazione umana, la fragilità può valorizzare la nostra comunicazione veloce e superficiale, in fuga dall’ascolto.

La fragilità considerata generalmente dannosa deve essere riscoperta nella sua profondità e anche nella sua forza. La fragilità spinge l’uomo a chiedere ascolto, rende chiaramente percepibile il bisogno degli altri, di una vicinanza in grado di dare conforto. Per una società più umana è decisivo scoprire che la fragilità è una delle strutture portanti della vita, ci rende coscienti dei nostri limiti e delle nostre debolezze, ci aiuta a considerare il valore dell’attenzione agli altri.

Diversamente dall’ideologia della perfezione che domina il nostro quotidiano e che vuole vendere la bellezza esteriore, come la sola, la fragilità richiama, invece, la vera bellezza, poiché si focalizza su ciò che una persona è nella sua essenza e non su come essa appare, può aprirci ad un uso ponderato delle parole, dei gesti e delle scelte che quotidianamente compiamo, al fine di non ferire l’altro e inserirlo in una relazione fondata sull’umiltà e sul rispetto.

In una società caratterizzata dall’idea del potere e del successo, è importante educarsi a riconoscere la fragilità, non come tratto da biasimare e da nascondere, ma come essenza ontologica della nostra individualità.

Per noi uomini, segnati dal limite del fallimento e della sofferenza, riconoscere che la fragilità non è un sintomo da curare, ma un’espressione irrinunciabile del nostro essere-nel-mondo, significa vivere con la consapevolezza che la forza non sta nel potere, che esaurisce ogni infinito, ma nella fragilità che l’infinito lo cerca instancabilmente, solo così realizzeremo fino in fondo, quello che è il destino della condizione umana.

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2 thoughts on “La fragilità dell’anima

  1. Bellissimo articolo!
    Vorrei aggiungere, che il riconoscimento della propria fragilità è indispensabile per la nostra realizzazione.
    Solo così è possibile, di fronte al Nulla, fissando lo sguardo della Medusa, decidere chi vogliamo davvero essere.
    Ancor meglio, decidiamo se “essere” o invece continuare a “non essere”.
    Questa è l’unica vera libertà che ci è concessa, essendo il libero arbitrio una illusione.

  2. Seguo la Dott.ssa Trotta con molto interesse.
    Tutti i suoi scritti inducono a riflessioni profonde e come Lei stessa in quest’ultimo articolo ” la fragilità dell’anima ” afferma, ci fanno entrare negli abbissi del nostro essere e ci forniscono sempre più energia per comprendere ed approfondire il senso della vita.
    Grazie Dott.ssa Emanuela

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