Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Essere senza mente: il saññāvedayitanirodha nei Nikāya e nel Visuddhimagga (pt. 4)

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2.8. Saṃjñāvedayitanirodhasamāpatti e prajñāpāramitāsūtra

Merita almeno un accenno l’ipotesi avanzata da Bronkhorst, secondo cui quella che Westerhoff (2018: 136) ha chiamato “dottrina illusionistica”, in riferimento all’insegnamento capitale dei Prajñāpāramitāsūtra (“Discorsi della perfezione della gnosi”), originerebbe non tanto da lunghi e complessi ragionamenti filosofici, ma da profondi stati di concentrazione (samādhi) e dalle intuizioni che ne proverrebbero (Westerhoff 2018: 180; Franco 2009: 14): in particolare, Bronkhorst sostiene che la dottrina centrale di questi sūtra dipenda proprio dalla saṃjñāvedayitanirodhasamāpatti (“attainment of cessation of ideation and feeling”). Con le sue parole (2009: 127), “the Mahāyāna doctrine of the illusory nature of the world could be the ontological equivalent of this state, now understood to be the experience of the unreal nature of the phenomenal world”. Poiché in questo stato nulla più si manifesta alla coscienza, questa stessa cessando, la conclusione che ne deriva è che il mondo fenomenico – fino nelle sue componenti irriducibili, i dharma – è fondamentalmente insostanziale e in definitiva irreale. Con la scomparsa dell’attività cognitiva, responsabile dell’apparizione del mondo, questo stesso viene a cessare, rivelandosi vuoto e simile a uno spettacolo di magia o a un sogno. Non è improbabile che almeno in parte i sūtra della Prajñāpāramitā possano aver avuto origine dal samādhi, in particolare da una “generalization of the meditative ‘experience’ in the nirodhasamāpatti” (Franco 2009: 14), anche se in alcuni casi il riferimento a particolari esperienze contemplative o visionarie potrebbe essere una finzione letteraria finalizzata a provvedere di maggiore credito i contenuti dottrinali da comunicare.

3. Conclusione

Secondo l’analisi abhidhammica del citta, questo non sorge mai nella sua condizione pura, ossia separato dai cetasika che sempre l’accompagnano, almeno in numero di sette, svolgendo ciascuno una precisa funzione. Non è possibile, dunque, essere coscienti semplicemente di un oggetto, perché la coscienza sorge sempre insieme con minimo sette fattori mentali. In particolare, il sorgere del citta è invariabilmente associato all’occorrenza del “contatto” (phassa), della “sensazione” (vedanā), della “percezione” (saññā), della “volizione” (cetanā), della “concentrazione focalizzata su un oggetto” (ekaggatā), della “vitalità psichica” (arūpa-jīvitindriya) e della ”attenzione” (manasikāra) – i sette fattori mentali universali (sabba-citta-sādhāraṇa-cetasika) (Karunadasa 2019: 87). Un momento di coscienza (designato con il termine citta, che indica sia il puro dato della coscienza, inesperibile di per sé, sia l’unità composita della coscienza e dei suoi concomitanti mentali) non è qualcosa di elementare, non è un’unità sostanziale e duratura, perché come minimo comprende e può essere analizzato in otto componenti, ossia, appunto, la coscienza (citta) e i sette cetasika universali anzidetti, che sorgono e svaniscono insieme, simultaneamente col citta cui sono associati, lasciando posto al sorgere e al successivo svanire di un altro momento di coscienza, il quale a sua volta avrà lo stesso destino e così via di momento di coscienza in momento di coscienza in un continuum mentale ordinariamente privo di cesure.

D’altra parte, in quella straordinaria condizione che è il saññāvedayitanirodha, lo stato più vicino alla morte e alla liberazione finale sperimentabile mentre si è ancora in vita, il citta-santāna viene arrestato (Bodhi 2007: 323) – sia pure temporaneamente, fino a sette giorni o più – e il praticante viene così a trovarsi in uno stato in cui il suo intero apparato psicologico è eclissato[1], persino nei suoi aspetti subliminali, senza che a questo punto sia possibile scorgere qualcosa di profondo che permarrebbe nel nirodha. A onor del vero, non tutte le scuole buddhiste ritenevano che la nirodha-samāpatti fosse un conseguimento acittaka, ma tale può sostenersi che fosse la posizione del Theravāda classico codificato da Buddhaghosa nel Visuddhimagga, dove la definizione data di nirodha, “la non manifestazione dei dhamma della mente e dei suoi fattori” (XXIII, 18), offre un importante e autorevole supporto testuale all’idea che l’interpretazione dei theravādin della “cessazione” fosse quella acittaka.

Oggigiorno sembrerebbe che perlopiù né i monaci né i maestri laici di meditazione, in Oriente come in Occidente, tengano in considerazione il nirodha (Griffiths 1981: 617-618), sia dal punto di vista pratico[2] che, con l’eccezione almeno di Pa-Auk Sayādaw[3], da quello dottrinale, probabilmente perché la sua posizione nel sentiero buddhista è incerta, come già aveva rilevato il grande buddhologo Conze (1988: 110). Il raggiungimento di tale stato richiede, inoltre, una preparazione e un impegno ascetici notevolissimi, difficili a trovarsi ai giorni nostri. Eppure, l’interesse che esso suscita deborda dall’ambito buddhologico, entrando in quello delle scienze medica e psicologica a motivo di quella che è almeno una possibilità da verificare[4]: indurre, al culmine di un percorso meditativo, una condizione di completo arresto della mente e delle sue funzioni, sia coscienti che non, accompagnata, dal punto di vista fisico, da una specie di ibernazione. È dunque auspicabile che il nirodha divenga oggetto di studio non solo da parte della buddhologia, come già è avvenuto (ancorché gli studi specificamente dedicativi non siano molti[5]), ma anche da parte della scienza[6] – solo che si trovino, beninteso, meditanti in grado di entrarvi. Cosa che, sfortunatamente, oggi sembra essere rara, se non proprio inesistente, poiché persino coloro, già non assai numerosi, che insegnano e praticano i jhāna generalmente trascurano il nirodha, che pure di quelli costituisce l’apice.

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[1] In quanto l’intero apparato psicologico viene a mancare nel nirodha, di questo verosimilmente non si dà memoria, come quando si dorme senza sognare: quando ci si desta, non c’è memoria del sonno senza sogno, ma della fase precedente e di quella successiva, e così pure è probabile che sia per lo stato di “cessazione”.

[2] Effettivamente, Brasington (2015: 127-128) racconta di aver visto in Thailandia un monaco rimanere per diversi giorni consecutivi in una forma di meditazione profonda che Brasington stesso ha identificato col saññāvedayitanirodha. Lo stesso autore ha partecipato ad un ritiro condotto da Pa-Auk durante il quale sostiene di aver vissuto un’esperienza meditativa che “exactly matches what is described in the suttas for the cessation of perception and feeling”. Ma queste testimonianze si fondano su supposizioni: la prima sulla supposizione che il monaco thailandese fosse nel nirodha, la seconda sulla supposizione che lo stato contemplativo conseguito da Brasington corrisponda al saññāvedayitanirodha.

[3] Dal punto di vista della pratica, il percorso proposto da Pa-Auk non prevede il raggiungimento del nirodha, il quale tuttavia gode di una considerazione almeno “teorica” in Knowing and Seeing (Pa-Auk 2010: 175-176): l’uso delle virgolette è necessitato dal fatto che, nella breve discussione del nirodha nell’opera summenzionata, Pa-Auk (2010: 175) vede nel nirodha stesso “the fifth benefit of jhāna concentration”, inserendolo così all’interno dei “buoni risultati” (ānisaṃsa) della concentrazione jhānica. Eppure, sebbene esso sia inteso come il prodotto della pratica, nel percorso contemplativo di Pa-Auk non trova posto, per questo si è detto che l’attenzione che gli è riservata è di fatto meramente teorico-dottrinale.

[4] Se non si vuol prestar fede ai testi buddhisti, che ne parlano come di uno stato non solamente virtuale o teorizzato, ma raggiunto effettivamente da alcuni praticanti, come Sāriputta, capace di ascendere lungo tutti i jhāna fino al nirodha senza alcun riferimento egoico, come viene detto nei sutta da SN 28.1 a SN 28.9.

[5] Eccettuando lo studio di Daniel M. Stuart (2013), l’articolo di Winston King (1977), la monografia di Paul Griffiths (1986) e qualche suo altro più breve contributo sul tema del nirodha (1981, 1983, 1990), di questo generalmente in letteratura critica non si trovano che informazioni incidentali oppure, quando vi viene dedicato uno spazio apposito, come fa ad esempio Eviatar Shulman (2014: 32-40), si tratta di una sezione di ristretta estensione che non considera l’argomento in tutta la sua complessità, o perché ciò non è necessario allo scopo dell’autore o perché per l’appunto la discussione della “cessazione” da parte della letteratura secondaria finora è stata, tutto sommato, scarsa.

[6] Al momento, l’unico studio neuroscientifico specificamente dedicato al nirodha è quello di Laukkonena et al. (2023).

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