> di Mario Lupoli *
È stato pubblicato per i tipi della Einaudi l’ultimo romanzo del premio Nobel sudafricano J. M. Coetzee, «I giorni di scuola di Gesù». Il libro riprende la narrazione, iniziata ne «L’infanzia di Gesù», della storia di David, un bambino che osserva l’esistente con uno sguardo radicale che non manca di affascinare, ma che allo stesso tempo turba e fa vacillare quel mondo le cui risposte convenzionali non possono bastargli.
Una profonda tensione filosofica anima tutta la scrittura dell’autore, di cui questo «vangelo secondo Coetzee» (così The Guardian) rappresenta un momento che, pur non senza collegamenti con la produzione precedente, favorisce nuove aperture di pensiero, per quanto spesso insondabilmente enigmatiche.
La storia di David parte dal suo arrivo in una nuova terra, insieme a centinaia di persone, dopo un viaggio su navi salpate chissà dove. Il viaggio cancella per sempre dalla memoria i precedenti vissuti, e la destinazione non è semplicemente un nuovo paese, ma una nuova vita che prende le mosse dal nulla. Un nulla che il corso stesso dell’esistenza costringe a non pensare come inquietante, ma come condizione normale da cui (ri)partire, forse infinite volte.
I profughi si trovano in una società che si manifesta subito senz’anima ma intonata all’obiettivo della mera efficienza. Chi arriva viene avvolto da una spenta cortesia, rientra nella sua algida organizzazione sociale e finisce presto per acquisire la normatività della sua burocratica routine.
Simòn, un uomo attorno alla mezza età, si fa carico di David, che ha visto salire sulla sua stessa nave, smarrendo però subito sua madre. Quest’ultima potrebbe forse essere Inés, terza figura centrale dei due romanzi. Nessuno può tuttavia averne certezza, avendo il viaggio cancellato ogni memoria della vita precedente, con la fragile eccezione di qualche ombra. E nondimeno lei si fa madre di questo bimbo di 5 anni, con le sue domande spiazzanti e le sortite inaspettate.
Un bambino che da solo impara a leggere una versione ridotta del Don Chisciotte, che resta l’unico libro che abbia intenzione di leggere e rileggere. Un bambino che nei numeri riconosce l’individualità di ognuno di essi e non la loro astratta sequenza ordinata, e che non cogliendo i legami che ne strutturano la serie è terrorizzato da quell’abisso di nulla che si apre, tra un numero e l’altro, al saltatore.
L’eccezionalità di David, la sua eccentricità gnoseologica, morale e giudicante, lo porrà in conflitto con l’ordine sociale che, per poter fondarsi, richiede la condivisione di un universo simbolico, conoscitivo e procedurale.
I tre, il bambino, l’ipotetica madre e l’uomo di mezz’età, dovranno quindi fuggire per sottrarsi all’autorità dell’ordine, cui David, che gli adulti non possono che accettare o rifiutare in toto, si dimostra incompatibile.
Si inseriscono così, con cautela, nella vita ai margini di una nuova città, ignari di cosa le autorità intendono fare di loro, se li ricercano, se li ignorano. Il destino di salvezza e quello di condanna si intrecciano da subito e non sono davvero distinguibili. Fino a quando la routine si impone di nuovo, facendosi strada tra gli accomodamenti nella nuova città e nel susseguirsi dei giorni.
In questa nuova pagina della loro esistenza, sorge il problema di garantire un’educazione a questo bambino, che non tollera, ricambiato, la scuola statale. E che al contempo risulta ingestibile anche da qualunque educatore privato: da chiunque, in effetti, non riesca a riconoscerlo, come dirà ripetutamente David.
In un’Accademia di danza troverà nel Maestro Arroyo e sua moglie un’idea di educazione basata sul nesso essenziale tra danza, numeri e stelle. Una filosofia che appare a Simòn e Inés una idiozia misticheggiante, ma che trova una sintonia con la modalità di David di rapportarsi al mondo, che verrà scoperta e approfondita nel corso dei capitoli finali, aprendo alla pensabilità di altri approcci all’esistente, oltre quello calcolante, misurante e manipolante.
L’intreccio narrativo trova un crescendo con un delitto inspiegabile che scompagina, insieme al possibile ordine intuitivo dei fatti, anche l’ordinarietà sentimentale ed etica. Lo sguardo filosofico di David è stato riconosciuto, nella critica letteraria di Coetzee, un elemento di grande suggestione che coinvolge ognuno di noi, esortandoci a quello stupore che consente l’interrogazione radicale del mondo. Nel realismo di Simòn vede invece uno specchio il pensiero da cui parte in fondo ogni lettore, che grazie e attraverso quel filtro trova un appiglio per misurarsi con le parole di David, tentando di piegarle al proprio linguaggio e di non smarrirvisi dentro.
Coetzee, pagina dopo pagina, spezza i confini della letteratura, la eccede per evocare in ogni lettore un coraggioso percorso dal tracciato tutt’altro che sistematico e lineare. Ne sollecita il pensiero oltre l’ordinarietà e l’apparenza, aprendo a ognuno nuove prospettive teoretiche e pratiche, nella ricerca di una pur incerta sintonia con quanto di più umano, tra sgomento e bellezza, sia esperibile nella vita.
* Mario Lupoli è nato nel 1979 a Napoli, dove si occupa di pratiche filosofiche, educazione non formale e mediazione culturale. Socio dell’Istituto O. Damen e della Società Italiana di Teoria Critica, ha pubblicato lavori sulla ricezione di Platone nel pensiero contemporaneo, su Karl Marx e la Scuola di Francoforte.
J. M. Coetzee, I giorni di scuola di Gesù, ed. Einaudi, Torino 2017.