
Parlare d’intelligenza, o meglio del suo concetto nel Medioevo, non è cosa semplice, poiché l’articolazione di tale pensiero è completamente diversa da quella odierna e muove dai dettami della scolastica. Per comprendere meglio tutto ciò è bene far iniziare il nostro percorso proprio da quella luce dantesca. Con la Commedia, Dante ci accompagna in quel suo personale viaggio mistico-filosofico che tutta la antichità ha, più o meno segretamente e variamente, indicato e visto: è il viaggio che ci è mostrato da Omero nella Odissea e che porta l’eroe al rinvenimento della Casa (Itaca)[2], è la “la conversione, la resurrezione” cui ha invitato Gesù, è il “passeggiare con Jhwh” ovvero il vedere un divino che è il vedersi nel divino. Dunque, non è possibile concepire l’opera dantesca senza quel supporto teologico su cui essa si fonda. A tal proposito ci sovviene in aito il passo del saggio di Nino Borsellino, Ritratto di Dante (1998): «Per Boccaccio Dante ha pari diritto a più titoli. Lo ricorda nella Vita (§ 2): “E di tanti e sì fatti studi non ingiustamente meritò altissimi titoli; però che alcuni il chiamarono sempre poeta, altri filosofo, e molti teologo, mentre visse”. Ma è certo che dei tre solo il titolo di poeta può interamente soddisfare, e non perché ripudi gli altri, ma perché solo esso li comprende tutti., mentre gli altri non definiscono che se stessi»[3].
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