Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot


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La rivoluzione neorealista: un cinema dell’incontro, della erranza-veggenza, del “durante”.

È ormai noto che il cosiddetto movimento neorealista, a livello filosofico, si opponeva a tutto quello che aveva rappresentato il fascismo. Esso era animato da una visione del mondo e dei fatti sociali echeggianti tematiche marxiste, come la denuncia di una condizione umana offesa da tribolazioni e violenze crescenti, e quindi dalla riscoperta dei valori primigeni del mondo rurale e delle classi subalterne (tale indirizzo coincise infatti con la pubblicazione degli scritti di Antonio Gramsci). Nella prospettiva cinematografica[1], viceversa, il neorealismo si segnalava per l’abbandono della struttura narrativa romanzesca e per l’assunzione di uno stile quasi documentaristico (volto a far emergere quelle situazioni nascoste dalla cultura dominante, quegli aspetti inessenziali, mediocri, impoetici dell’esistenza), il quale, grazie a realtà come la teoria del pedinamento di Zavattini anticipatrice del noto piano sequenza della Nouvelle Vague, l’utilizzo di attori non professionisti, di ambienti e di un parlato naturali, nonché a una espressiva fotografia in bianco e nero, generò una corrente artistica innovativa e, come afferma lo studioso francese André Bazin, di rilevanza internazionale[2].

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