
Riflessioni sulla Tecnica
Alla luce delle nuove innovazioni legate all’intelligenza artificiale, i progressi nell’ambito della robotica e dei media, di fronte ai quali l’essere umano si trova in uno stato di spaesamento, dubbio e velata frustrazione per l’incapacità di relazionarsi al progresso, sembra più che mai necessaria una riflessione del nostro rapporto con la tecnologia. L’articolo si propone, in tal senso, di indagare i limiti del nostro pensiero circa quello che siamo, come abbiamo imparato a pensarci e come ci siamo abituati a pensare la nostra relazione con le “macchine”. Alla luce di questo la riflessione cerca, in maniera critica, di confrontarsi con alcune domande come:
- “In che modo le nuove tecnologie ci costringono a ripensarci?”,
- “Come siamo stati abituati a vederci fino a questo momento?”,
- “Può la tecnologia portarci ad abbandonare definitivamente gli schemi di pensiero con cui ci siamo pensati per secoli circa la mente, la coscienza, il libero arbitrio, le emozioni, la sessualità ecc.?”
Lo storico della scienza Thomas Khun nel 1980 scrive che “è essenziale fare il tentativo di disimparare gli schemi di pensiero indotti dall’esperienza e dall’istruzione precedenti” (Kuhn 1980 p. 183) e Gaston Bachelard parla di ostacoli epistemologici facendo riferimento a quelle convinzioni che chiudono una possibile discussione sui fondamenti del nostro pensiero, impedendo l’emergere di nuove verità. Si tratta, dunque, di sondare le credenze che, assunte come verità fisse, de-finiscono il modo con cui conosciamo il mondo e criticarne la validità per mostrarne l’insufficienza. Da ultimo, la proposta di un possibile nuovo rapporto con la tecnologia, che suggerendo una prospettiva alternativa favorisca, in ultima istanza, un più autentico modo di guardare all’uomo.
Inoltre una riflessione sul progresso contemporaneo non può prescindere nel suo domandare dal confrontarsi con la tradizione e il linguaggio ereditato dalla tradizione circa l’oggetto del suo interrogarsi. Se, dunque, si tenta di riflettere sulla tecnica e di tornare quanto più indietro possibile nella storia, non si può evitare di confrontarsi con il mondo e la cultura greca. La domanda che va posta allora è “Come pensavano i Greci il rapporto fra uomo e tecnica?”, “Cosa significava per i Greci il termine tecnica?”, “Cosa era tecnico e cosa era non tecnico?”
Ma è opportuno precisare che il cercare di confrontarsi con tali domande non significa andare a indagare il modo in cui un popolo antico si rapportava a ciò di cui si sta parlando, ma riconosciuto il debito dell’intera cultura occidentale a quella greca, questo confronto significa porsi alla radice del modo in cui continuiamo a guardare alla tecnica. Prima di entrare nel merito di questa analisi è opportuno fare delle considerazioni su quella che è la natura umana e su come si costruisce e si caratterizza il rapporto tra essere umano e ambiente.
L’Uomo
A differenza di tutti gli altri esseri viventi dotati di istinti che guidano la loro azione e il loro orientarsi nel mondo in maniera determinata, l’uomo appare fin dalla nascita indefinito, imperfetto, amorfo, gettato nel mondo, direbbe Heidegger ad indicare la gratuità dell’essere del Dasein, e proprio per questo chiamato a pro-curarsi la vita, ad occuparsi in prima persona della conservazione della propria vita. Nel tentativo di raggiungere il proprio scopo particolare, sprovvisto di una reazione immediata ed efficace, l’individuo è costretto a rinunciare alla possibilità di una reazione sicura. Così l’inibizione dell’azione appare un’alternativa migliore e come ciò che apre la strada all’ambito della riflessività, della ragione. Fin dall’origine la riflessività pare si costituisca solo a partire dall’esterno, dalla rinuncia ad agire sull’esterno per restituire una soluzione al problema che l’esterno rappresenta; non c’è, allora, alcuna contrapposizione tra azione e ragione, interno e esterno, piuttosto solo un rapporto complementare poiché l’interno prende forma solo a partire dall’esterno. Inoltre, a ciò si deve aggiungere che se ogni essere vivente tende a conservare la vita, si deve pensare che ogni sua azione sia un riflesso di questa tendenza; ma allora il prescindere dall’azione, ossia il costituirsi della riflessività, non può che essere un modo, una strategia con cui l’uomo intende conservare la propria vita e che si rivela essere migliore e più adeguata rispetto la semplice azione immedita. Secondo Umberto Galimberti la ragione si configura come l’esito meglio riuscito di un processo che prende piede già con la percezione, l’immaginazione e il linguaggio, e in cui progressivamente si prescinde dall’azione per espandere la capacità di controllare quella realtà, che si era presentata, in precedenza, angosciante e deludente (Galimberti 1999 p. 290 ).
Ma il controllo che si cerca di ottenere sull’ambiente passa per mezzo di rappresentazioni simboliche (linguaggio, disegni), individuazioni di schemi fissi e leggi, costruzione di strumenti e oggetti di ogni sorta; cose che, se si guarda a ciò che dice Platone a proposito della tecnica “Infatti, ogni causa per cui ogni cosa passa dal non essere all’essere è sempre una creazione” (Platone, a cura di Giovanni Reale 2000 p. 513), condividono la caratteristica di essere create dal nulla, fatte passare dal non essere all’essere e dunque di essere tecniche. Se allora si ripercorre la riflessione fino a qui fatta, si nota un legame, non poco rilevante, tra la ragione, alla base della vita umana, e la tecnica.
Non va quindi considerato come prodotto di questa riflessività, che si configura come tecnica fin dall’inizio, lo stesso pensiero, il sapere e in conclusione la conoscenza stessa? E come conseguenza, non ci si trova forse costretti a dire che, anche se non evidente, la conoscenza stessa è un prodotto della tecnica? La conoscenza stessa è tecnica?
La filosofia
Risulta allora interessante prendere in considerazione quello che, Emanuele Severino definisce come l’evento più importante nella storia dell’occidente: la nascita della Filosofia. A livello etimologico il termine viene fatto risalire a filo-sofia, amore per il sapere, ma il termine sofia è ricondotto da Severino al sostantivo astratto della parola safes che vuol dire “chiaro”: sa è intensificativo, fes è il corrispettivo di fos(luce) (Lezioni milanesi il nichilismo e la terra (2015-2016) p. 51). Così Filosofia avrebbe come significato amore per la luce, portare alla luce ciò che è nelle tenebre. Ma, allora, ciò che è nelle tenebre si rivela come l’esperienza originaria. Si capisce, a questo proposito, come Aristotele nella Metafisica affermi che la filosofia nasca dallo Zumos che indica l’angosciato stupore dell’essere umano di fronte alla realtà che si configura come la resistenza tremenda e meravigliosa con cui l’uomo è chiamato a confrontarsi.
All’interno di questo panorama il sapere – oggetto della filosofia, “scienza delle scienze”, come Aristotele la definisce all’ interno del Protrettico – viene a delinearsi come svelamento di quella natura(Φύσις) che appare immutabile e come ciò che permette di osservare la natura nella sua essenza profonda. Proprio per questo la filosofia si dimostra essere una contemplazione della natura, dove per contemplazione va inteso lo “theorein”, ossia conoscenza dell’Essere stabile del mondo. Ma è necessario ricordare a questo punto che è per mezzo della tecnica, o meglio della scienza del sapere (la filosofia), che la natura si rivela per quello che è, e in ciò appare svelata. Per mezzo della filosofia la natura mostra il suo vero Essere, è rivelata(ἀλήθεια) la verità(ἐπιστήμη) del “mondo” e di fronte a questa la tecnica, e con essa la filosofia, è costretta ad arrestarsi, non si può conoscere di più. Risultano allora chiare le parole di Prometeo che, incatenato ad una roccia per aver donato il fuoco agli uomini, afferma “La tecnica è certamente inferiore rispetto la necessità”. Da ultimo si consideri che al di là della fama di cui gode come disciplina astratta che ha per oggetto un sapere disinteressato, la contemplazione filosofica si fa portatrice di quella conoscenza che nasce proprio per spiegare il dolore e il senso dell’esistenza. Cogliendo la verità immutabile della natura(ἐπιστήμη), l’essere umano è in grado di dare un senso agli eventi futuri e di sottrarsi all’angoscia che nasce di fronte l’imprevedibilità del divenire.
Fatte queste considerazioni, si capisce come nel mondo greco non vi fosse il minimo spazio per una visione lineare del tempo e per ogni sorta di teleologia che guardasse ad un fine che non fosse la fine di ciò che esiste. Piuttosto, tenuto conto del necessario arrestarsi del sapere di fronte la natura e di come il sapere si riduca a contemplazione, ossia presa in considerazione delle leggi della Φύσις, non poteva che essere propria dei greci una visione circolare del tempo e una considerazione pessimistica dell’esistenza che è un passare dal non essere all’essere, per ritornare nel non essere.
Il Cristianesimo
Sul mondo greco si innesta poi la tradizione culturale giudaico-cristiana con cui si impone una concezione ben diversa della verità e del sapere, nonché del ruolo che l’uomo ricopre nel mondo; nonostante queste differenze che distinguono in maniera netta le due tradizioni, si va però a rilevare un punto, molto interessante, comune sia al mondo greco sia al mondo giudaico-cristiano.
“E Dio disse “facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra” (Genesi 1,26). Con questo passaggio si impone una visione del mondo ben diversa da quella che avevano gli antichi greci: l’uomo, creato a immagine di Dio (La verità), è nel mondo perché domini su di esso e il mondo è creato perché sia disponibile all’uomo. Se la terra intera e tutti gli animali esistono per soddisfare le esigenze umane, allora anche la conoscenza e la filosofia, come prodotti tecnici umani, hanno il diritto di subordinare a sé l’intero pianeta. Cade il divieto per la tecnica/conoscenza/scienza di arrestarsi di fronte ad un certo risultato, che possa fungere da verità immutabile e fissa, poiché è ad essa che viene affidato il compito di costituire quella verità immutabile. Quest’ultima non è più intesa come “ἐπιστήμη”, verità che è, ma come “emet”, verità che si fa; e proprio perché la verità cessa di “essere” e comincia a “diventare”, al tempo ciclico greco si sostituisce quello lineare e ottimistico cristiano in cui il fine non è più la fine, ma il raggiungimento della verità, la redenzione, la rinuncia all’apparenza terrena. Con questo il cristianesimo si rivela fin dalla sua origine nichilista e il principio del nichilismo contemporaneo che, morto Dio, non rinuncia a vedere il mondo come inganno, apparenza, relatività assoluta, nulla, contingente e falso. Ogni attributo di tale sorta con cui si tenta di definire il mondo non è ateo, ma piuttosto nichilista, ossia disperatamente cristiano. Si consideri inoltre che ponendo la verità stabile come compito umano e denunciando contemporaneamente l’illusorietà e la transitorietà di questo mondo, ogni forma di sapere o conoscenza che intenderà porsi come episteme immutabile rispetto l’apparenza dei sensi, è costretta a confrontarsi con l’illusorietà di questo mondo da cui sorge e nel quale non può esservi nessuna forma di sapere certo e assoluto. Non è un caso che la scienza moderna è definita da Bacone, in maniera coerente rispetto alla tradizione cristiana, come potente proprio perché per mezzo della conoscenza, l’uomo è convinto di poter controllare, prima o poi, questo mondo che è creato per lui in maniera definitiva e di avvicinarsi, producendola per mezzo della scienza, alla verità. Ma ciò che non era possibile rendere chiaro era che il grande ottimismo cristiano avrebbe dovuto fare i conti con il suo inconscio pessimistico.
Verità e Tecnica
La verità salda e certa, a cui la scienza anela, non sarà mai possibile date le condizioni iniziali in cui il cammino della conoscenza prende avvio ; infatti pur dovendo essere la verità, che l’uomo produce per salvarsi dall’imprevedibilità del mondo, fissa e immutabile, perché solo in questo modo ci sarebbe la possibilità di dare un senso, in maniera definitiva e certa, al dolore dell’esistenza e di controllare la realtà, essa viene però ricercata per mezzo della conoscenza, del sapere, della filosofia e della scienza, ossia con mezzi che appaiono per il modo stesso in cui la realtà si configura come inadeguati. Ogni verità che origina da questi ambiti conoscitivi non può, perciò, che risultare ipotetica, storica e relativa e con ciò non vera come si vorrebbe. Si desidera infatti raggiungere, a partire da una condizione di finitudine e per mezzo del sapere, uno stato di conclusività, perfezione, fine assoluta- dal non vero si cerca di raggiungere il vero per sempre. Il sapere e ogni forma di conoscenza dunque si caratterizzano per l’apertura di un tempo ipotetico, in cui non è possibile rinvenire alcuna certezza, ed è la scienza stessa che si fa forte di tale carattere. Affermando l’ipoteticità del proprio sapere la scienza dice “La conoscenza passata è inferiore rispetto ogni risultato attuale, ma ricordatevi che ogni risultato di oggi sarà inferiore a quello di domani, perché è domani che si raggiungerà un risultato conclusivo e perfetto”.
Con ciò la scienza si rivela consapevole del carattere relativo e contingente di ogni forma di progresso e conoscenza, e rimane però legata al grande cammino verso la verità. Questa affermazione fa di ogni tipo di scienza e sapere che si pronuncia come ateo e che però cerca di raggiungere un risultato, una conoscenza conclusiva in futuro, il residuo più grande della tradizione giudaico-cristiana con cui si pone il problema della verità da “fare”. Nell’epoca del nichilismo e nell’odierna età della tecnica, il sapere con cui da principio si doveva produrre la verità, ha reso impossibile l’imporsi di una verità stabile(ἐπιστήμη), finendo così per distruggere anche la verità stessa (Dio) con cui assume questo compito. La tecnica e con essa la scienza, che prende nel XX secolo il posto di Dio, della più grande forma di verità immutabile che l’occidente aveva posto per 2000 anni, non è altro che il grande residuo della conoscenza, a cui le Sacre scritture affidano l’incarico di produrre la verità. Quello che qui si sta cercando di dire è che – tenuto conto della precedente equazione tra ragione e tecnica e le varie considerazioni fatte intorno alla conoscenza, il pensiero e la riflessività, come strumenti con cui l’uomo, rinunciando all’azione immediata, ambisce ad un risultato migliore circa il proposito di sopravvivere – la tecnica non è altro che la stessa conoscenza, apparentemente disinteressata, oggetto della filosofia, della scienza, della politica, dell’etica, del diritto, ecc.… che aveva la pretesa di imporsi come assolutamente e certamente vera. La fredda e disumana tecnica dei nostri giorni è identica alle verità (utilitarismo, capitalismo, marxismo, socialismo, positivismo, per citarne alcune) che l’Occidente per secoli ha prodotto, sotto la guida delle Scritture, per controllare, dominare in maniera certamente sicura e salda la realtà e per dare un senso all’altrimenti insensata sofferenza. Ma ciò di cui l’Occidente non si era accorto è che a causa della stessa conoscenza per mezzo di cui poneva quelle verità, che avevano la pretesa di essere vere assolutamente, stava per condannarsi alla distruzione di ogni verità certa (episteme) presente e futura aprendo la strada al nichilismo, all’orizzonte ipotetico sotto il quale ogni forma di sapere e giudizio è costretto a stare e alla contemporanea e disprezzata era della tecnica.
Mondo greco e Mondo cristiano
A questo punto si tratta di vedere come le due tradizioni giudaico-cristiana e greca seppur differenti per molti aspetti circa il modo con cui pensano il rapporto tra conoscenza e verità, paiono però concordare entrambe su un punto decisivo che le pone entrambe dallo stesso lato e non contrapposte come si può pensare. Se tutte e due intendono porsi in maniera diversa circa la questione della verità, entrambe hanno però come sottosuolo comune che precede la riflessione sulla possibilità di un sapere certo e immutabile, l’evidenza del divenire: credere che le cose vengono dal nulla e al nulla sono destinate, e che ciò che esiste sia destinato ad eclissarsi nel nulla assoluto.
La cultura greca, da Platone in poi, da una parte, tiene ferma tale constatazione e intende salvare ciò che esiste con l’introduzione di un principio trascendente, l’anima, che sopravvive alla morte, ossia alla nullificazione dell’ente. L’anima, presente in ogni cosa, non è però di questo mondo, ossia del mondo transeunte, corruttibile, ma appartiene all’iperuranio, al mondo immutabile ed eterno delle Idee. Rispetto a tale mondo ogni determinazione terrena non è altro che una copia imperfetta di un’Idea perfetta e l’“altro” mondo è raggiungibile dall’uomo per mezzo della conoscenza e della ragione, che ha sede nella parte più nobile dell’anima, quella intellettiva. Ma se si volesse tornare ancora più indietro si nota come la centralità della conoscenza razionale sia già affermata da Socrate che cerca di porre rimedio alla dolorosità insensata del divenire, istituendo il primato della ragione, della logica e del discorso dialettico che permette di cogliere l’Essere delle cose. Ma come afferma Nietzsche (La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal !870 al 1873 p. 40) il Socratismo, la tendenza a porre un rimedio al caos dell’esistenza e a rendere tutto calcolabile, sia pure per mezzo della conoscenza, è ben più vecchia di Socrate e connaturata all’essere umano da quando esiste. Appare allora evidente come la dottrina di Platone e di Socrate si poggino entrambi sul riconoscimento che le cose divengono e nel loro divenire sono destinate a corrompersi e a diventare niente e come la conoscenza vera(episteme), che permette di sollevarsi dal flusso costante della realtà per cogliere l’idea che risiede dietro ogni cosa, sia per l’uomo disponibile attraverso lo strumento della ragione. Ma non è forse tecnica l’organizzazione di mezzi in vista di uno scopo? Non è forse già allora tecnico l’utilizzo dell’intelletto come mezzo in vista di un certo scopo, che è per Platone la conoscenza del mondo vero? Si può dire che già la filosofia Platonica, e ancor prima quella Socratica, sia tecnica? Si può pensare che finché si pensa alle cose come divenienti, si sia già inevitabilmente nel contesto della tecnica?
L’altra tradizione presa in esame, quella cristiana e definita da Nietzsche come “platonismo per il popolo”, deve a quella precedente la visione del mondo come divenire continuo in cui ogni cosa partecipa dell’essere ma allo stesso tempo è destinata a tornare nel non essere e la credenza nell’anima come principio trascendente che sopravvive alla morte del corpo sensibile. Ma se l’ Iperuranio, il futuro paradiso cristiano, per Platone è raggiungibile per mezzo della ragione a partire dai sensi, per il Cristianesimo l’altro mondo smette di essere raggiungibile e comincia ad essere promesso e non è possibile alcun accesso razionale. Se nel mondo greco fra il mondo vero e quello finto c’è un rapporto di ascesa, nel mondo cristiano ci si trova di fronte ad una opposizione netta fra l’aldilà e la terra; allo stesso modo la dottrina greca pone una certa identità tra sapere e verità, mentre con il Cristianesimo si apre una frattura insanabile in forza del modo Cristiano di pensare il rapporto tra sapere e verità. Così il mondo reale inizia ad essere pensato come errore in sé, ma comunque strada per il mondo vero se in vita si rinuncia ai sensi, alla sensualità e a tutto ciò che per sua natura è effimero e privo di quel carattere eterno che spetta invece all’ultraterreno. Anche l’asceta cristiano che vuole il nulla di questo mondo per raggiungere quello vero appare però nel suo profondo tecnico, poiché organizza mezzi (la conoscenza, l’ascesi) in vista di uno scopo (l’aldilà privo di dolori). Ma ancora, se Platone e l’insegnamento cristiano risultano tecnici è perché pensano, nel loro profondo, la realtà come diveniente, ossia come un passaggio dal non essere all’essere e dall’essere al non essere.
Conclusione L’articolo prende le mosse dall’attualità e a partire da questa tenta di porre delle domande sulle nuove tecnologie e su come queste possano cambiare il nostro modo di relazionarci ad esse, al mondo circostante e in ultima istanza a noi stessi. In tal senso si procede cercando di portare alla luce le riflessioni del mondo greco e cristiano, mostrando come non si può non essere debitori e eredi di una certa prospettiva con cui ci si approccia a temi come quello della tecnica e della verità. Nel progressivo rimando alla tradizione emerge poi come il tema della tecnica coinvolga in verità uno spettro di ambiti molto più ampio che non riguarda solo la mera e insensibile tecnologia odierna, portando al centro dell’attenzione anche il concetto di verità e la differente maniera con cui gli antichi si sono confrontati e hanno pensato tale concetto. I due mondi greco e cristiano apparentemente differenti appaiono alla radice del loro pensiero concordi su un punto centrale ossia il divenire della realtà; di fronte all’evidenza del flusso costante del mondo e al diverso modo di pensare la verità, entrambe le tradizioni evocano la tecnica per salvarsi e porre un rimedio all’imprevedibilità e dolorosità dell’esistenza. Non è allora un caso che in conclusione le domande poste all’inizio ci spingono a mettere in luce che tecnica e divenire non sono altro che due aspetti di una stessa realtà che non posso essere eliminati e su cui non si può riflettere senza prendere in considerazione l’altro. A questo proposito le domande con cui l’articolo si apre risultano inadeguate e senza una possibile risposta finché non ci si converte- dove il con-vergere è un volgersi insieme, ossia un muoversi verso la medesima direzione- ad un domandare radicale che per il fatto di interrogare la tecnica, è costretto a confrontarsi in maniera serrata con il divenire del mondo e chieda “Che possa essere tecnica anche il divenire del mondo?”.
Bibliografia:
Thomas Khun, The Halt and the Blind: Philosophy and the History of Science, in “The British Journal for the Philosophy of Science, XXXI, 1980.
Platone, Simposio,205 c, in Platone, tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano, 2000.
Emanuele Severino, Lezioni Milanesi Il nichilismo e la terra (2015-2016), Mimesis , Fano,2018.
Friedrich Nietzsche, La filosofia nell’epoca dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, Adelphi, Milano, 1991.