
Interessante e benvenuta l’operazione di tradurre in napoletano classici della letteratura (oltre a Kafka, gli editori Marotta e Cafiero – “Coppola” è un loro marchio – propongono Fedro e Perrault) nel formato tascabilissimo (6,5 x 13 cm) della collana “i fiammiferi”, che con questo titolo supera quota cento. A disposizione di chi voglia leggere un napoletano che non sia quello classico di Scarpetta e De Filippo.
Purtroppo l’esito non è all’altezza dell’idea e della veste editoriale, in quanto il contenuto esibisce una scarsa cura tanto del testo quanto della lingua. Al di là di questioni discutibili (e ancora discusse), come ad es. l’uso degli apostrofi a fine parola (francamente inutile, dato che in napoletano la vocale finale è muta); o come l’uso della consonante iniziale raddoppiata in certe parole dal suono più forte; o ancora l’uso dell’eufonica in espressioni come ad arapì, ad arrefonnere, ed ecco, quello che risalta è una scrittura casuale, priva di una guida salda in termini grammaticali e lessicali (strana al riguardo l’assenza di una nota critica di chiusura circa gli standard utilizzati).
Alcune osservazioni sul testo.
In napoletano, il plurale si forma con la e finale: qui invece incontriamo ad es. spasimi, o tessuti. I reni (maschile) vengono definiti come toste-toste (che è femminile: il maschile è tuoste-tuoste). Alcuni accenti vengono invertiti (vedè al posto vedé; cadè al posto di cadé); altri vengono apposti a centro parola senza necessità (stéva; suónno). Alcune parole vengono riprese dall’italiano, come il se (in napoletano la forma corrispondente e corretta è si), o come follia (pazzaria) o ancora come aprisse. Altre parole sono sbagliate: si può usare appiso per il maschile e appesa per il femminile; ma appisa no. Oì non è un’interiezione, ma la forma ’o ’i’? (Vedi?). Similmente, adda corrisponde a ha da (cioè: deve), con consonante raddoppiata. Si ritrova l’uso di termini dubbi come popo (talora scritto popio); il raddoppio della consonante iniziale non corrispondente al parlato (vvenuto, mme); qualche refuso (n’ncoppa; sonolenza; spazi mancanti dopo la virgola; apostrofo chiuso anziché aperto in ‘ntecchia, o in ‘a); qualche errore di ortografia (’ofatto, asotto, ’ntono).
Cosa più grave, si riscontra qua e là una mancanza di omogeneità nella grafia. Ad es., comme na in un punto e comme a na in un altro; oppure i’, scritto talvolta come io; vicina/vecina; o ancora pe scritto a volte con l’apostrofo (pe’), a volte senza la e (p’); a volte per intendere per le.
La sensazione generale – al netto dello sforzo comunque notevole, che traspare dalla lettura – è di innaturalezza: viene da pensare che nessuno parli davvero così a Napoli. Oggi, data l’abbondanza di pubblicazioni al riguardo, non si è più costretti a scrivere il dialetto “a orecchio” (per quanto la forma “a orecchio” avrebbe imposto quanto meno la doppia c in Oicanno); per il napoletano, in particolare, esistono decine di vocabolari, almeno due dizionari etimologici ottimi (Iandolo e D’Ascoli) e non poche grammatiche disponibili anche in edizioni dall’ampia diffusione.