Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

L’Erranza, la Solitudine

1 Commento

«Écrire est rechercher la chance»

(Georges Bataille, Le Petit)

I.

Su un vecchio taccuino impolverato, a firma del Maestro, stavano queste parole:
“Più di quindici le vacche del Sole, sette le principesse del re Bahram, ma una sola la via.
Ho viaggiato per conoscere l’uomo; tanta polvere hanno calpestato questi piedi, tante pietre hanno segnato il loro cammino. Ho viaggiato per conoscere l’uomo, ma egli mi ha scacciato. Ho mangiato alla tavola dell’uomo, ma egli mi ha scacciato. Ho bevuto il vino e l’acqua dell’uomo, ma egli mi ha scacciato. Ho dormito nel letto dell’uomo, ma egli mi ha scacciato. Ho trovato l’amore fra le braccia dell’uomo, ma egli mi ha scacciato. Ho ottenuto la morte per mano dell’uomo, ma egli mi ha scacciato.
Ho ripreso il cammino. Il sangue dei piedi ha marchiato il terreno, ha lasciato tracce.
Chi seguirà le mie tracce se non l’uomo che mi ha scacciato?
Più di quindici i profeti maggiori e minori, sette le porte di Tebe e molteplici le vie. L’uomo non fu fatto a somiglianza di Dio ma dell’immagine di Dio che aleggiava sulle acque. L’uomo è l’immagine di Dio che si specchia nel mondo”.

Tu conosci la furia stentorea della mia abnegazione, io conosco la fiamma vorace della tua diserzione. Dove avresti voluto portarmi stanotte? Ovunque, ovunque, non qui.
Dov’è qui? Qui è non ovunque.
Dov’è ovunque? Ovunque non è qui.
Per concepire le braccia, dovresti pensare all’ombra del ramo; per concepire la mano, alla foglia. Per concepire il volto, all’acqua battente. Hai distinto i colori della mia cecità: tu vedi al di là del deserto. Tu conosci il mio corpo ricoperto di sabbia, il calore della mia schiena rovente.
Dove mi condurrai oggi? Ovunque, ovunque, non qui.
Dov’è qui? Altrove.

Le città degli uomini, dici, hanno tutte lo stesso aspetto: le hanno abbellite per farle meglio marcire. Non sopporto l’odore delle città ma ho imparato a sopportare l’odore degli uomini. Alla stazione c’era l’odore della città, non quello degli uomini.
Parlami di chi eri un tempo.
Devo tacere.
Hai cura delle tue parole.
Ho cura del silenzio.
Parlami di chi eri un tempo.
Anche se non dovessi tacere, non saprei cosa dire.
Parlami della tua infanzia.
Chiedimi.
Eri felice?
Devo tacere.

Quel che cerco è al di là delle città degli uomini.
Alla fine del cammino è ciò che cerco.
Alla fine del cammino, v’è sempre un altro cammino.
Un altro cammino è ciò che cerco.
Ma ciò che cerco è alla fine del cammino.
Avrei di che dirmi braccato se non seguitasse a giungere la notte sul cammino, se la luna non fosse sintomo della mia eredità. Il cammino non esiste se non per essere percorso; se non percorso, esso smette d’esistere. Lo stesso vale per la vita, stando alle parole del Maestro. Il Maestro è vento e fiamma, è terra e cielo. Il cammino non esiste se non per essere percorso; se non percorso, noi smettiamo di esistere.

Dove arriva il mio passo, dove i miei pensieri, dove la tua mano sul mio corpo. Dove il cielo raggiunge la terra, dove l’ordito invade la trama, dove il buio infrange la luce. Hai portato con te un bagaglio fin troppo pesante quanto leggero il tuo incedere fra le dune: sai che fartene delle promesse mancate, delle prodezze del giorno. La veglia ti guida al sonno, il sonno al sogno, il sogno alla “bella parvenza”. È solo la paura a guidarti ed essa ti lega a me, come una maledizione.
Sarei potuta andare ovunque, se non ti avessi seguito.
Dove saresti andata?
Sarei andata ovunque, se non ti avessi seguito.
Se avessi potuto davvero scegliere dove andare, avresti scelto in ogni caso il deserto.
Invece ti ho seguito.
Invece mi hai seguito nel deserto.
Se avessi potuto scegliere dove andare, avrei scelto in ogni caso il deserto.
Invece mi hai seguito.
Invece ti ho seguito nel deserto.
Se avessi potuto scegliere dove andare, sarei rimasta.
Invece sei rimasta.

Il Maestro mi ha detto: “Tu sei maledetto dai padri e dai figli, dagli avi e dai venturi. Tu sei maledetto dal suolo e dal sole, dall’albero e dal frutto. Tu sei maledetto dal pane e dal vino. Tu sei maledetto dall’olio e dal miele. Tu sei maledetto dal caldo e dal freddo. Tu sei maledetto dal ricco e dal povero, dall’alto e dal basso, dal magro e dal grasso. Tu sei maledetto dal nero e dal bianco, dalla femmina e dal maschio, dalla pianta e dall’animale. Tu sei maledetto da Dio e dal diavolo, da monaci e laici, da sommi sacerdoti e ayatollah. Tu sei maledetto dal brahmano e dall’asceta, dal maestro e dall’allievo. Tu sei maledetto dai guru e dai roshi, dai patriarchi e dai santi. Tu sei maledetto dai martiri. Tu sei maledetto da me e dall’intensità dell’amore che provo mentre ti guardo, in silenzio, camminare”.
Ho chiuso gli occhi sul tuo terrore.
Dovresti guardare la mia nudità di ragazzo.
Ho chiuso gli occhi sul mio pudore.
Dovresti fissare lo sguardo.
Quando saremo a casa, saremo allegri. Faremo una grande festa e ci sarà tempo per chiedere e pretendere il perdono. Allora chiederemo scusa e pretenderemo che gli altri si scusino con noi.
Verremo alla pace, ma solo a piccoli passi.
Immagino la casa, è proprio come l’abbiamo lasciata.
La casa non cambia.
Noi non siamo cambiati.
Immagina la casa. Tutto è cambiato, ma la casa è proprio come l’abbiamo lasciata.
Ho chiuso gli occhi sulla casa.
Dovresti fissare lo sguardo sul giorno.

Se fossi tu quel che cerco, ti avrei già trovato.
Se potessi trovare quel che cerco, non ho dubbi che saresti tu.

II.

Ha scritto il Maestro:
“Avanza la bestia e tutto vacilla – così imperiosa la mano che impugna quanto quella il cui indice addita la vittima designata: chiede ancora tributi il padrone, ancora corvées; aboccaperta lo coglie questa sua assoluzione – argento e denaro, argento e denaro -, attende la resa, nient’altro. Niente pittori a Montmartre – nemmeno un Picasso si fé con usura – niente dèi sull’Olimpo, né sacrifici rituali: così viene lenta la morte e non teme la nostra difesa di topo. A trascinare il feretro d’Europa un vento per cui tutto tace, un grido improvviso taglia l’asfalto – di viscere e pianto l’incontro, vuoto del cielo e waste land: Bologna, Napoli, Parigi, Vienna, Londra, irreali ancora una volta, ancora visioni di mondi in rovina…
Fuori dall’uscio e dentro non più Sibilla a divinare, né Tiresia transgender, né sfingi ad attendere l’ultimo uomo, né Sua Santità, e Lachèsi più non fila sul fuso…
Aboccaperta per nulla, decadenza e tramonto, colpa e destino si confondono: Dio-Pinocchio ha levato le tende – non ha lasciato che critters: «They have brought whores for Eleusis»; cadaveri si decompongono senza celebrazione, senz’atti d’amore: questo cadavere non ha più nome: realtà? Libertà?”.

Nella luce rossa del tramonto la mia vita si è inebriata di una prodigalità disperata: procede ancora, irremissibile, la folle scommessa con il cielo.
La gioia dell’andare-in-pezzi è solo la scintilla, non è la luce. È sempre Io che, finalmente, indugia nel piacere della disgregazione. Ma finché siamo nell’Io, siamo nelle tenebre. Al di là dell’Io v’è il fulgore, lo splendore che acceca. Solo allora, per la prima volta, l’occhio incontra il Sole.
Boccone amaro d’attesa infelice – gusto innocente di santità -, la casa è lontana, il corpo langue, la lingua batte il tamburo di un desiderio troppo audace per essere esaudito e la notte avvolge l’ardua scala che conduce all’inaudito: sai, il silenzio può distruggere, insieme, la luna e il dito…

Amare è il giogo cui ci espone il vivere; tutt’altro è amare il giogo, tutt’altro amare e vivere. Che la vita sia avvertibile da cima a fondo come sogno – lungo ambiguo doloroso assurdo sogno – non fa che aumentare l’angoscia per la cogenza del risveglio che, presto o tardi, dovrà pur coglierci…
La notte fra di noi incontenibile confonde la profondità del tuo turbamento con la superficie della tua carne refrattaria alla luce. Ho detto addio alla volontà d’afferrare, anche solo per un istante, il divino.
Quel che è stato considerato divino fra i popoli del mondo: l’intersessualità, il delirio, la misantropia.
La solitudine è comunicabile ma non condivisibile – come il condividere, il partage, non è a sua volta passibile di condivisione, giacché è esso a condivider-ci. Ad ogni latitudine la medesima scena si ripete: «l’uomo si scopre solo in una notte vuota», talora in presenza d’altri. In quanto escluso, sciolto, privo di legami con i suoi simili, egli rivela – mediante la relatività della propria posizione – l’assoluto: la sua solitudine è divina.
(Tremo all’idea che qualcuno possa condividere ciò che qui è impresso con l’inchiostro singolare di questo sangue. Si diviene infine gelosi della propria solitudine, quando la si è a lungo coltivata come il più bel fiore del proprio giardino).
Più si svuota l’esistenza – più essa s’approssima alla tenebra – più la solitudine diviene piena, finché essa, ricolma fino all’orlo, trabocca e procede all’erranza, ostaggio dell’Altro attraverso il quale la solitudine è possibile.
La notte fra di noi incontenibile, ancora esperienza della nostra solitudine offerta in dono all’altro come un tempo si offrivano, agli dèi, le primizie del raccolto.

Vicino cresce l’albero del tuo segreto: la ronda di notte degli animali oscuri ne ha scosso i rami – sono crollati, sono caduti i frutti nella notte dolce. Li ha raccolti un contadino di passaggio, a me li ha consegnati, a me solo ha confessato il segreto di questa bontà ancora acerba – a me solo ha donato il peso di questa confidenza all’orecchio, per paura ci sentisse il resto del nostro vecchio mondo…
Mi restituisce alla veglia l’assenza costitutiva che ci unisce – due corpi separati, un solo grido – ma, uniti o disgiunti, condividiamo questo splendido silenzio…
La luce è penetrata nella stanza: in accordo al resto del mondo, fabbrico me stesso da capo…
Intanto l’urlo ha lacerato l’oblio; trascorsa la notte, la parola è consunta in balbettio – poiché in quest’epoca, dici, si tace, si trattiene col fiato questa fuga di dèi. Non è mistero se è Eros che scuote questo pianto, questo riso millenario e nel gabinetto segreto della tua mente, riposo senza quiete…
Così ogni notte visito l’albero del tuo segreto, immune alle tenebre e agli attacchi dei cani: non temere, non è mai troppo tardi, non temere – sarà l’ennesimo inverno, il tuo straziato sorriso splenderà ancora, assurdo e luminoso, fra i cristalli di brina, non è troppo tardi…«e l’anno scorso eri così bambina!».

Il pensiero dell’Altro è un pensiero del remoto, di ciò che rifugge ogni prossimità.
Nietzsche ha insegnato: «Meine Brüder, zur Nächstenliebe rathe ich euch nicht: ich rathe euch zur Fernsten-Liebe» («Fratelli miei, non l’amore del prossimo vi raccomando ma l’amore del remoto»).
L’amore per l’Altro implica l’instaurarsi di una Relazione incapace di degenerare in mero rapporto: Relazione in cui l’Altro, pur approssimandosi, non cessa di rimanere Altro, impedendo la morsa, la presa del presunto soggetto della Relazione il quale, per il fatto stesso di essere entrato in Relazione, vorrebbe fare dell’Altro una figura della prossimità, un alter-ego o un’antitesi suscettibile di sintesi.
Riconoscere e mantenere la trascendenza dell’Altro è il più arduo degli esercizi spirituali: non basta semplicemente decentrarsi, lasciare libero l’accesso alle devastazioni, agli sconvolgimenti portati dall’Altro in noi; si tratta, con questo, di rinunciare alla torsione conoscitiva – così legata a teorie e pratiche di dominio – che vorrebbe, nell’avvicinare l’Altro, consumarlo, annullarlo in quanto Altro.
La trascendenza dell’Altro lo mantiene invece nel suo mistero – l’Altro è detentore di un segreto che non ci sarà mai confessato… – e dà origine a una pratica di disvelamento rispettosa del nascosto in cui l’Altro si mantiene come enigma, mai come progetto, mai come compito: è quanto dell’Altro è remoto, tenuto lontano dalla foga predatrice della mia coscienza, che si può amare. Amo, dell’Altro, l’impossibilità del suo padroneggiamento: il suo sfuggirmi

Incerto inspiro il mondo, innalzo e poi sprofondo – ho chiuso nei miei occhi la realtà insopportabile; a poco a poco sprigiona, adagio, defluisce sulle guance – diviene sul mio corpo sinfonia di pietà disperata, usurata da un ricordo fioco e da un vivissimo presagio: sempre il mondo muore e nasce ed io con lui. Canta un’ode alla rinuncia questo cuore infestato dai vermi, sospeso fra il prima ed il poi, ancora per pochi attimi prima del crollo abissale.
Le mani giunte, di fronte all’indice puntato, dissimulano la supplica, rassettano la parola mutandola in preghiera; a margine stia, remoto – a sola misura del fuori – ciò che non ho fatto, quel che non ho avuto. Consumi, infelice, quei bordi – seclusi dal tempo maggiore – l’effimera ferocia del preso, l’ardua dolcezza del dato, la gioia di dire – senza parvenza di colpa: mi basta.
Ora l’indice è abbassato e l’orecchio attento: il mio volto non pronuncia – comunica solo: non uccidermi, ti prego; se puoi, tienimi, reggimi, non farmi del male.

Una vecchia poesia del Maestro:
Dell’Amico, tutto è nascosto – che dire?
Non è crudele quanto il mese d’Aprile,
egli non vuole chetarsi o dormire,
non ha né aspetto né animo vile.
L’Amico – incontro e promessa,
alla nostra vita commossa,
per tutta la fede concessa,
fa tremare la voce e le ossa.
L’Amico – non viene a portare aiuto,
a colmare lo spazio d’un antico iato,
a riscuotere quanto è dovuto,
a portare a compimento il fato.
L’Amico – speranza e passione,
al nostro stanco spirito affine,
dona la gioia dell’afflizione,
e tutta la sua esistenza, infine.
Dell’Amico non sappiamo – che dire?
Non potrà certo esserci ostile,
il suo approssimarsi, svanire, svenire
e il suo incedere puro e gentile.
L’Amico – dono della vita a se stessa,
affinché anche il più povero possa
guadagnarsi una sua giovinezza,
giusto al limitare della fossa.
L’Amico significa: tutto è incompiuto,
una volta per sempre niente è dato,
niente, troppo a lungo, è perduto,
né quel che sarà, né quello che è stato.
L’Amico è segno di disseminazione,
sua maestà è la corona di spine.
Egli sia per te percezione
dell’impossibilità di pronunciare
la parola FINE”.

La filosofia, radicata nell’amicizia, è stata distrutta dall’illusione della verità. La vulgata attribuisce ad Aristotele il celebre detto: «Amicus Plato, sed magis amica veritas», amico di Platone, ma ancor di più amico della verità. Per quanto sia una frase apocrifa, nell’Etica a Nicomaco è in effetti contenuta una certa contrapposizione fra amicizia e verità: «pur standoci entrambe a cuore, è un dovere morale reputare più cara la verità» (I, 1096a).
Nemmeno il relativismo, grande distruttore della verità, ha sanato tale contrapposizione, rilanciando la filosofia: la relatività del vero non ha ancora alcun significato, se essa non conduce alla verità del relativo. In questo modo, il filosofo potrebbe affermare: «Amica veritas, sed magis amicus Plato», amico della verità, ma ancor di più amico di Platone; giacché, pur standoci entrambi a cuore, reputiamo gli amici più importanti della verità – ovvero: non crediamo più in una verità che non s’affermi mediante l’incontro, il dialogo, l’amicizia.

III.

La solitudine condivide col pensiero la medesima passione dell’illusione: la solitudine sarebbe forse l’assenza dell’Altro? E il pensiero un’esibizione dell’idiotismo dell’Io?
L’Altro è condizione del pensiero – Maurice Blanchot diceva, semplicemente, l’ami -, e la solitudine è possibile solo a partire dalla cognizione, dalla coscienza dell’esistenza dell’Altro – altrettanto solo, eppure condizione di possibilità della mia esistenza; ed io, della sua.

Ci si incontra solo nell’angoscia, dove l’esistenza trema.
Si comunica all’altro, all’altra, l’invivibilità della vita non perché essa divenga, una volta comunicata, più vivibile, ma perché tale invivibilità possa essere trasfigurata nell’emozione intensa dell’incontro, affinché essa sia sottratta alla continuità monotona della durata e sia eternizzata nell’istante – eterno è ciò che si sottrae al flusso, ciò che è strappato all’attività temporale di quel che avviene.
Ciò riguarda profondamente l’Altro – il nostro riguardo nei confronti, al cospetto dell’Altro. L’Altro è al di là del possibile, fuori dall’operazione; la sua presenza non può essere afferrata: si sottrae.
C’è contraddizione: ci si incontra solo nell’angoscia, ma l’incontro sarebbe la chance che dissipa l’angoscia, il superamento dell’angoscia – di durare – in una perdita comune, nel comune come perdita di sé…
(Questo movimento eccede non solo il possibile ma la possibilità stessa ed è, après-coup, l’impossibile di cui ha parlato Bataille nell’Histoire des rats, in Dianus…).
Ma, in me, l’angoscia ha voluto, preteso, l’incontro – ha voluto il suo perdersi, l’angoscia: allora l’incontro non sarebbe la chance – la possibilità di vincere al gioco – ma la chance della chance, la possibilità che vi sia chance e, dunque, la possibilità dell’impossibile…

“Che l’Altro sia condizione di possibilità della mia esistenza ed io della sua è posizione certamente eretica in seno alle religioni rivelate”: il Maestro lo ha annotato in un vecchio taccuino. “Ciononostante, essa descrive piuttosto bene quella dinamica dell’appartenere e dell’aver bisogno che, a detta di Martin Heidegger, s’incontra qualora ci si interroghi sulla relazione essenziale fra Dasein ed Essere. In maniera similare, Dio è la condizione di possibilità della mia esistenza poiché essa appartiene a Dio, ma allo stesso tempo “Io” – «Miserere mei domine quia pauper sum et unicus», amava ripetere Raimon Panikkar, citando un salmo latino – sono condizione di possibilità dell’esistenza di Dio, giacché Egli ha bisogno di me, della mia povertà, della mia unicità – e qui sta l’eresia.
In questo dono, in questa reciprocità del non reciproco, si staglia l’etica originaria – tanto antica e tanto nuova – l’etica originaria come amicizia”.
Il Maestro prosegue: “durante le preghiere serali si incappa facilmente nella lettura e nella recitazione, dopo il Magnificat, della benedizione finale – e si resta stupiti, quasi interdetti, quando si deve dire: Ci benedica Dio onnipotente, Padre Figlio e Spirito Santo. In luogo del latino omnipotens – frutto forse di dispute scolastiche – il rito greco conserva un theos philantropos, di cui il nostro cuore si allieta. Traduciamo, in accordo ad Adriana Zarri: Ci benedica Dio, nostro Amico…”.

Mi ricordo di te. Non ho potuto dimenticare.

Hai dimenticato.
Ricordo la tua voce squarciare la stanza. Ricordo il tuo viso bambino, la speranza nei tuoi occhi chiari. Ricordo il tuo pallore, il freddo delle tue mani, il bianco dei tuoi denti puliti. Ricordo la tua barba acerba, il profumo dei tuoi capelli. Ricordo la gamba destra e la gamba sinistra. Ricordo la fierezza del tuo petto, la compostezza delle spalle. Ricordo i nèi sulla tua schiena, i primi peli sulla pancia. Ricordo il sapore della tua bocca. Non ho potuto dimenticare.
Hai dimenticato.
Ricordo la tua casa di allora, tua madre, tuo padre, i tuoi fratelli. Ricordo il giardino e la terra, i conigli e le rane. Ricordo la campagna. Ricordo il canto del gallo al sorgere del sole. Ricordo il mandorlo e il pesco. Ricordo i pomodori e le more. Ricordo i tuoi vestiti. Ricordo la tua povertà. Ricordo la pioggia. Ricordo i tuoni e i lampi. Ricordo il fulmine, quando colpì il Maestro. Ricordo il funerale, la chiesa piena, tanti uomini, tante donne. Ricordo i bambini. Non ho potuto dimenticare.
Hai dimenticato.
Ricordo l’inverno, l’estate. Ricordo la primavera, l’autunno. Ricordo la tua giovinezza, il tuo cuore aperto e disperato. Ricordo la passione. Ricordo il dolore. Ricordo la gioia. Non ho potuto dimenticare.
Hai dimenticato.

Il solitario rivela a sé l’Altro in virtù di una distanza essenziale, uno scarto: poiché ha rinunciato al potere di comprendere – e, con esso, ad ogni potere – egli è l’ospite dell’Altro che lo ospita, accoglie l’Altro che lo accoglie. La solitudine è opposta assolutamente all’isolamento e, dunque, alla socialità; la misantropia è la più alta fra le passioni civili: ci si allontana dagli uomini, paradossalmente, per orrore di sé – ci si allontana dagli uomini per troppo amore…
Nietzsche (Gaia Scienza, V, 380) asserisce che, per poter osservare finalmente il nostro essere di europei, bisogna assumere lo stesso comportamento del viandante: quando quest’ultimo vuole conoscere l’altezza delle torri della città, egli, il viandante, “abbandona la città” e ne abbandona il peso, si fa leggero e comincia ad errare nel fuori, nell’al di là della città; esercitando il suo sguardo da lontano, il viandante conserverà, nei confronti della città abbandonata, il privilegio dello scarto, mediante il quale la sommità delle torri può cominciare a rivelarsi alla vista.
(Quando ci soffermiamo sullo scarto la nostra passione calcistica può fornirci una corrispondenza: l’atto dello “scartare”, nel calcio, rimanda al dribbling, alla leggerezza del tocco che improvvisamente inganna l’avversario e consente d’avventurarsi con la palla tra i piedi, insidiando l’area nemica; il dribbling cerca e trova, se riuscito, lo spazio per proseguire la manovra, esso propizia l’accadere, sfida il rischio della perdita e si lascia giocare dal divenire…)
Scartare rispetto alla città non è ancora, rigorosamente, abbandonare la città: non è l’oltrepassare, nel quale chi oltrepassa lascia al suo destino ciò che viene oltrepassato. Il medesimo potrà dirsi degli uomini: essi non possono essere semplicemente oltrepassati. L’altro è onnipervasivo, egli è dappertutto fuori di me e perfino interior intimo meo; la volontà di solitudine è allora il tentativo di uno scarto nei confronti dell’altro, per meglio osservare la sua statura.
Soli, il nostro peso diminuisce, la leggerezza s’impossessa di noi e ci preserva dal fardello dell’isolamento, cui la socialità estroversa inevitabilmente conduce – soli, misuriamo con lo sguardo la grandezza dell’altro e forse, in questo aperto spazio, in questa Lichtung, impariamo dallo scarto l’arte del riguardo (è noto il gioco, nella lingua francese fra écart – scarto – ed égard – riguardo) – l’unica ars amandi di quest’epoca.

La magnifica bellezza dei corpi è dovuta unicamente alla loro caducità, alla loro destinazione: scomparire; nell’istante gioioso dell’incontro dei corpi a qualcosa d’eterno s’attinge: ma l’eterno è, così, fugacità.
Se la jouissance sessuale è l’enigma della perdizione estrema – specialmente la jouissance non fallica, la jouissance diffusa – e della integrale sovversione del soggetto, non la penetrazione ma la fellatio è la più grande profanazione, oltraggio all’essere parlante.
Gli stati amorosi non sessuali – insieme alla mistica dell’erotismo – prolungano tale profanazione, tale sovversione fino al parossismo, macchiando il latte caldo della durata con l’amaro caffè del kairos decisivo in cui si sente – irrefrenabile bisogno – la necessità di perdere, di continuare indefinitamente a perdere, di coincidere perfettamente con la perdita stessa.
Se le mie parole ti hanno condotta, tenendoti per mano, nel deserto, luogo della tentazione e del miraggio, ascolta: Non paga di un’assuefazione prona all’indifferente lascito del passato, la coscienza, peritura, intona un canto votivo all’increato – per gloriarsi, ancora padrona, della grazia e del peccato.
Tace la tua carne ammutolita nel tuo corpo – prigione lieve – quando solo un istante fluisce la vita, un istante sempre più breve…
Tace la tua carne e la ferita pulsa solamente quando deve.
La coscienza ignora: ogni sentimento è violento; amare, distruggere: lo stesso movimento.
Osserva l’insetto stordito dalla luce.

Il drappeggio del pensiero cela l’emozione in ogni piega: quand’essa viene alla luce e il panneggio è ormai caduto, il pensiero ostende la medesima nudità del bambino e noi moriamo, nel pensiero, del pathos che vive in noi.
Il mistico è il selvaggio nient’affatto precedente al civile – e superato dialetticamente, fagocitato da ogni Civilisation -, bensì unito indissolubilmente ad esso come corpo ed ombra. È a questo che la scrittura continuamente ci riporta – mediante esso, accarezzo «il bisogno che ho di scrivere qualcosa di pericoloso per me, come la porta di una cantina che si apre, nella quale si deve entrare a tutti i costi» (Annie Ernaux).
Ascolta:
Tremare deve questa tua voce – questa mia voce tua – turata nello spazio interstiziale tra il corpo e il pianeta; deve – lieve – accostarsi, colma d’eguale riserbo, al fiore concreto e al fiore ideale, all’ordito e alla trama, al pied-de-poule e alla seta. Soltanto per adorare, l’ipse si desta: ingenuo stupore, cristallo striato venato d’antico dolore. Trepida voce fuggita – come fosse fuggita la vita -, accorda il fremito al tuono, congiungi il loglio e il grano, unisci la mano alla mano, portami dove il perdono non abbia vessillo d’umano.

Poiché la scrittura sarebbe una supplica all’altro assente pur nella più estrema prossimità – destinato a rimanere assente e tenuto lontano dalla scrittura che lo evoca nell’istante in cui, definitivamente, lo occulta -, la passione dell’ascolto sarebbe il gioco per cui, mediante la lettura, io mi approprio del silenzio dell’altro che mi dis-appropria.
Se nella scrittura tento di coincidere con quell’altro assente – al cui sottrarsi miro nell’atto stesso di scrivere -, la privazione nella quale scado avrebbe la forma di un appello a vuoto, nel vuoto d’essere della scrittura in cui ne va di me in quanto io, dell’altro in quanto altro. Ma la scrittura aveva, dapprima, in me, contestato esattamente la posizione dell’in quanto, aveva voluto instaurare la distanza per la quale si tratterebbe, eternamente e senza sosta, di de-coincidere con quest’io che scrive e sarà letto da un altro che legge e sarà scritto.
Se, scrivendo, fossi nella posizione dell’altro – o, meglio, divenissi l’altro – avrei, con ciò, estromesso ogni posizionarsi e ogni posizionamento – avrei raggiunto il vuoto in quanto io, ovvero in quanto altro; ma poiché il divenire-altro della scrittura è la scomparsa dell’altro in quanto altro, mi scrivo solo nel dileguare dell’io che scrive e dall’assenza di io comunico all’altro il nostro reciproco scomparire.

Sono rientrato a Bologna alla mattina presto, non appena le prime strisce rosa invadevano il cielo e l’oscurità s’annullava nella purezza incontaminata di una luce diffusa. I nostri colloqui dal deserto sono monologhi di uomini freddi, sono canti di lutto, residui di battaglie mai intraprese. Che avrei dimostrato, se non che a te devo questa mia solitudine, se non che a te è consacrato questo mio ritrarmi? La parola, lo sai, è custode dell’ambiguità; la chance che in me hai definito era per te malchanche definitiva.
L’ultimo ricordo del Maestro è ciò che ci accomuna: “teso l’orecchio al suono di lingue differenti – talvolta divergenti – quand’esse intonano i Vangeli o recitano preghiere- Je vous salue Marie, Bendita tù eres, O Senhor é convosco; teso lo spirito al fenomeno che, stando agli Atti, coinvolse gli apostoli, detto glossolalia; di essi, dopo averli ascoltati parlare, gli astanti dicevano: «Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunciare nelle nostre lingue le opere di Dio»”.
Correspondances, tutto il mondo è gioco di correspondances: glossolalia chiama xenoglossia e il parlante non conosce la lingua in cui òra, seppur sia in grado, mediante essa, di comunicare. Quanti libri per comprendere i Vangeli, quanti nomi da pronunciare prima di poter pronunciare quel nome in cui tutti i nomi, pur confusi e mescolati, non danno lungo ad alcuna Babele.
Ci sarà da ritornare sul nome – sul nome del Padre e sul nome proprio, sul nome che sta alla fine di una serie di nomi, sul nome che, come la ninfea di Monet, essendo il primo, ripete in realtà tutti gli altri.
La questione, avrai intuito, non è comprendere ma tradurre: incomunicabili, parliamo sempre lingue differenti e, se intimi, non parliamo più alcuna lingua.
Attendiamo ancora l’istante in cui potremo tradurre il nome dell’Altro e l’Altro tradurrà il nostro nome – allora ci pronunceremo a vicenda, senza alcun bisogno di comprenderci; ma fino a quel giorno procede l’erranza, la solitudine è piena, e io non posso cessare, scrivendo, di cancellarmi – non posso cessare, scrivendo, di scomparire…

Gianluca Viola (Lamezia Terme, 1996) è laureato in Scienze Filosofiche presso l’Università di Bologna. Collabora con il gruppo di ricerca «Officine Filosofiche». È autore di Il Dionisiaco nel pensiero contemporaneo. Da Nietzsche a Carmelo Bene (Mucchi Editore, 2023) e Il bisogno di perdersi. Saggi intorno a Georges Bataille (Clinamen Editrice, 2024). Suoi articoli sono apparsi su «Dianoia. Rivista di Filosofia», «Iconocrazia. Rivista di Scienze Sociali e Filosofia Politica», «In Circolo. Rivista di Filosofia e Culture» e sul blog del progetto «Tropico del Cancro. Culture critiche del presente».

One thought on “L’Erranza, la Solitudine

  1. Pingback: Fondamento: osservazioni generali sul massimo sistema | Filosofia e nuovi sentieri

Lascia un commento