Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Filosofi inconsapevoli

1 Commento

Nel recente libro di Paolo Del Debbio, noto conduttore televisivo, professore universitario e giornalista, dal titolo Siamo tutti filosofi senza saperlo troviamo sei racconti di altrettanti percorsi di vita. Sono storie che portano i protagonisti a scoprire alcuni aspetti fondamentali delle rispettive esistenze. Arrivano inconsapevolmente ad essere filosofi, come è detto anche nel titolo, che però estende questa condizione a tutti. Deve trattarsi certamente di un’iperbole perché poi nel testo si vede che di fatto alcuni ne restano esclusi. Appare comunque chiaro che arrivarci dipende di più dalla disposizione interiore che dalle condizioni esterne dell’ambiente nel quale ci si trova. Questi filosofi inconsapevoli, hanno una certa analogia con i cristiani anonimi del cristianesimo implicito di cui parla Karl Rahner a cominciare dagli anni Sessanta del secolo scorso.

Sappiamo bene che può anche capitare la situazione inversa: chi studia e magari parla in modo forbito di filosofia senza averla interiorizzata nell’anima, questi possono essere ammirati da chi li ascolta ma non sono filosofi e, quel che è peggio, sono convinti di esserlo. Si tratta di quelli di cui parlava Cartesio nella prima parte del Discorso sul metodo in cui criticava la cultura dell’epoca. Ecco le testuali parole in merito: «la filosofia dà il mezzo di parlare con verosimiglianza di tutte le cose e di farsi ammirare dai meno dotti» (p. 13).

Tutti questi filosofi compiendo il loro passaggio, anche se non lo sanno, usano una filosofia che qualcuno si era già preso la briga di formulare compiutamente. Questo non significa che le due situazioni debbano essere speculari e non è neanche auspicabile tendere a questo, si tratta piuttosto di rilevare delle interessanti analogie e al tempo stesso prestare attenzione alle altrettanto importanti differenze.

Un esempio del rapporto fecondo tra analogie e differenze ce lo fornisce, non saprei se involontariamente, lo stesso autore, Paolo Del Debbio; nell’esordio infatti afferma: «Difficilmente ho incontrato un’espressione più sbagliata e infelice di questa. Nell’uso comune si esorta a ‘prenderla con filosofia’ chi è afflitto da un problema, un dubbio che non lo lascia tranquillo. In questi casi, sempre nell’accezione comune, si intende più o meno, ‘vivila con leggerezza’, ‘non farne un problema’, ‘fatti scivolare tutto addosso’» (p. 5).

Un po’ oltre (p. 20), parla di Antonio Gramsci definendolo «il più grande pensatore marxista italiano del Novecento». Ma è lo stesso Gramsci (Q. 11) in IL MATERIALISMO STORICO (p. 8), che, parlando dell’idea che ha il popolo del pensiero filosofico, adopera come esempio l’immancabile «prendere le cose con filosofia» e dice che anche se l’espressione richiama ad una sorta di rassegnazione «non è poi da buttar via del tutto». Proseguendo non parla tanto di quello che è da buttare ma di quello che è da teneree trova che «il punto più importante sia invece un invito alla riflessione, a rendersi conto e ragione che ciò che succede è in fondo razionale e che come tale occorra affrontarlo, concentrando le proprie forze razionali e non lasciandosi trascinare da impulsi istintivi e violenti». Queste due posizioni non si contraddicono ma nelle differenze si completano.

Tornando ai personaggi e alle loro vicende notiamo che nessuno ha studiato filosofia, a parte Filippo che l’ha appresa scolasticamente al liceo, senza che peraltro abbia prodotto significativi cambiamenti nella sua esistenza; quello che li caratterizza e li accomuna è la loro capacità di raccogliersi in un silenzio interiore, nella capacità di vivere un deserto che purifica nel quale sanno cogliere quegli impossibili, secondo il comune modo di pensare, frutti che saziano l’animo. Dei tratti di vita narrati alcuni sono drammaticamente problematici fin dall’inizio altri caratterizzati da un dinamismo che porta i protagonisti a fare molte cose nella vita. C’è comunque un punto critico che permette loro di capire il problema di fondo e quindi prima o dopo di risolverlo.

Nel primo racconto, vengono narrate le vicende di Calogero, detto Gero, che vive in una famiglia mafiosa, attorniato a uomini violenti e donne sottomesse e omertose, l’intuizione illuminante e salvifica avviene, fortunatamente, possiamo anche dire: provvidenzialmente, in giovane età. Scopre cosa significa essere persona. Gli studiosi che hanno trattato questo tema sono tanti, se ne è cominciato a parlare dall’inizio del cristianesimo, in primo luogo come problema teologico; del Debbio ha fatto principalmente riferimento a Karol Wojtyla e ad Emmanuel Lévinas.

Nel secondo invece il protagonista, Filippo, studente liceale, deve attendere fino ad un’età decisamente matura per togliersi quel macigno di un passato che l’opprimeva. Un problema, quello della masturbazione, che visto dall’esterno può far sorridere, ma che a lui ha sconvolto l’esistenza. Non è spiegato come ci sia riuscito. La lettura delle Confessioni di Agostino d’Ippona che ben distingue ciò che definiamo passato dal ricordo del passato, forse gli avrebbe aperto uno spiraglio. Anche Sigmud Freud potrebbe essere stato un valido punto di riferimento, con la sua interpretazione del vissuto, che, specie se traumatico, anche se non è nei nostri pensieri agisce su di noi e ci turba più o meno fortemente.

Margherita, ragazza impegnata ed entusiasta dei suoi studi di storia dell’arte e poi donna che continua in varie forme la sua azione insegnando e impegnandosi nel sociale, arriva solo verso i quarant’anni a capire chi è lei stessa. Il fiore della margherita che fin da piccola lei ammirava, ancor più quando le dissero che aveva il suo stesso nome, costituisce l’emblema della sua situazione e del passaggio verso l’autocoscienza. Ad un certo tratto della sua vita, smarrita si chiede quale sia questo punto assiale da cui promanavano le sue sensazioni, i suoi pensieri e le sue azioni. La riflessione e il dialogo con altre persone la portano verso l’autocoscienza. Ciò che Tommaso d’Aquino, Husserl e Sartre, ciascuno in una propria prospettiva, avevano elaborato e formulato lei l’ha saputo cogliere in modo implicito ma capace di dare quella saldezza che le mancava.

Cos’è il bene e come si consegue viene colto da Agosto, detto Agostino, in età giovanissima, grazie ad una comunità educante che in quel ambiente rurale e primitivo in cui è inserito funziona ancora; siamo in un piccolo centro sull’Appenino tosco-emiliano negli anni Sessanta-Settanta del Novecento. Da parte sua Agostino aveva una mente curiosa, molto recettiva e capace di meravigliarsi. Oltre alla famiglia due figure fondamentali caratterizzano il passaggio chiave della sua vita. Assunta, che partendo da una situazione disperata è riuscita a far camminare Lorenzo, un ragazzo che aveva subito un grave trauma. L’aveva fatto sentendolo come un dovere a cui ha aderito con entusiasmo; un esempio di dedizione che è rimasto nella memoria degli abitanti del piccolo centro e che per Agostino è stato un insegnamento fondamentale. Un’altra figura significativa è stato Martino, detto Galileo, un uomo semplice del luogo che a modo suo conosceva le stelle e con rudimentali strumenti riusciva ad individuarle. Agostino grazie a lui impara molte cose ma coglie anche quello che non si insegna e ci appare come un’illuminazione: coglie la bellezza dinamica e ordinata dell’universo. Ecco allora che senza saperlo ha unito le due cose che «riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me» (Critica della ragion pratica, p. 143).  Agostino aveva percorso con i mezzi propri il cammino filosofico morale di Kant.

Carlo e Furio, sono due amici che hanno intrecciato i loro divergenti punti di vista sulla morte in un discorso che è durato fino a quando uno dei due, a 57 anni, è venuto a morire. Carlo che ammette di aver paura della morte e intuisce una certa forma di trascendenza, Furio che invece dichiara di non temerla perché il niente non si teme, semmai si temono le sofferenze che lo precedono. Le contingenze della vita li spinsero a proseguire nelle loro discussioni, da un lieve incidente sul campo di calcio fino alla morte assurda di Sergio, uomo conosciuto e stimato nel paese. Era caduto un burrone con l’auto assieme al fratello Luigi, che invece riuscì a salvarsi, ma fu condannato a vivere in continuazione l’esperienza della morte.                                    Più avanti nel tempo un altro assurdo incidente causò la morte di Carlo, senza neanche dagli la possibilità di provare paura; Furio farà in tempo ad essere colto da malanni fisici e psichici prima di morire in solitudine in un ospedale psichiatrico. Forse la morte che non temeva nei suoi ultimi giorni l’aveva pure desiderata. Anche in questo caso i convincimenti dei personaggi hanno il loro corrispettivo nella storia della filosofia, se Furio di avvicina all’epicureismo, Carlo invece intuisce la trascendenza, specie quella dell’esistenzialismo che dialoga con la religione.

L’ultimo episodio vede protagoniste due donne napoletane, entrambe di condizione familiare modesta che non consente loro di seguire studi elevati, si trattava di imparare un mestiere per cominciare a dare una mano in famiglia. Cinzia faceva la sarta, continuando il lavoro della madre; Patrizia aveva frequentato l’istituto alberghiero e lavorava in questo settore. Amicizie e innamoramenti negli anni dell’adolescenza, poi una convivenza tranquilla per Cinzia e relazioni limitate nel tempo per Patrizia. Ma il nucleo centrale del discorso è altro: la costante dialettica oppositiva, peraltro molto amichevole, tra Cinzia, amante delle scienze esatte e credente, e Patrizia più attratta dalla letteratura e non credente, non aperta alla trascendenza divina. Da quando assieme avevano ammirato il dipinto di Michelangelo sulla creazione dell’uomo, nella Cappella Sistina, a quando Patrizia si innamora perdutamente di Filippo, un amore non paragonabile ad alcuna delle precedenti relazioni. Patrizia cerca si spiegarlo, di definirlo ma capisce di non aver le parole per poterlo fare. Da questo Cinzia ricava che la realtà dell’amore umano e a maggior ragione quella di Dio non possono essere definite, non c’è un linguaggio logico che ne possa esaurire il significato. Probabilmente questo non è bastato a convincere l’amica e ognuna è rimasta sulla propria posizione; anche loro filosofe, in questo caso una anche teologa, senza saperlo. Patrizia viene messa in relazione a Rudolf Carnap, ma forse starebbe bene anche accanto al primo Wittgenstein e alla mentalità che caratterizzava il Circolo di Vienna, dei fatti che non sono esperibili non si può dire niente di sensato. Cinzia viene invece associata a Karl Rahner, che abbiamo già avuto occasione di nominare, il quale invece pensa che il mistero, l’incomprensibilità di Dio sia proprio il senso della vita.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

Cartesio R., Discorso sul metodo, a cura di Gustavo Bontadini, Editrice La Scuola, Brescia 1983.

Del Debbio P., Siamo tutti filosofi senza saperlo. Sei storie di vita, PIEMME, Milano 2024.

Gramsci A., IL MATERIALISMO STORICO, Introduzione generale di Luciano Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1977.

Kant I., Critica della ragion pratica, a cura di Vittorio Mathieu, La Scuola Editrice, Brescia 1982

One thought on “Filosofi inconsapevoli

  1. Pingback: Fondamento: osservazioni generali sul massimo sistema | Filosofia e nuovi sentieri

Lascia un commento