Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Captain Fantastic: noia e propaganda

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Captain Fantastic è un film di Matt Ross del 2016 con Viggo Mortensen. Ma, soprattutto, è un concentrato di propaganda capitalistica incredibilmente mal celata – il che, se è un grave difetto nell’arte della retorica, è imperdonabile in quella narrativa.

Il film si apre con un papà che alleva da solo, senza la moglie, 6 figli nella foresta, dove insegna loro a sopravvivere procurandosi del cibo, a difendersi, ad allenarsi fisicamente e intellettivamente e a gustare la gioia delle cose belle, come la musica e dello stare insieme – lontano dalle seduzioni del consumo e da un sistema produttivo che ti rammollisce e ti rende dipendente dal potere delle aziende che ti forniscono cibo, cure, istruzione. I figli, in effetti, sono molto più forti dei loro coetanei (ricorrenti le scene di esercizio ginnico) e molto più colti: a volte perfino i più piccoli (8-9 anni) danno dei punti agli adulti, con una spigliatezza impressionante e conoscenze linguistiche e scientifiche da ultimo anno d’università. Si procurano da soli il cibo quotidiano – cacciando e cucinando la selvaggina – e imparano a contare unicamente sulle loro forze anche e soprattutto nelle situazioni estreme (come ad esempio la scalata verticale che il padre li conduce a fare).

Il problema – dice il film – è che le cose non sono proprio come appaiono: ed ecco che ben presto il padre viene presentato come un tiranno arrogante che, cieco della sua ideologia naturistica e anarchica dapprima accompagna i figli al fast-food, poi visto il menù li porta via da lì contro le loro insistenze, lasciandoli affamati; dopodiché li conduce in un supermarket a rubare (letteralmente) provviste e scappare via; infine istiga la figlia adolescente a sequestrare il fratello che ha deciso di restare a casa dei nonni e questa, durante la sortita sul tetto, cade rischiando di rompersi l’osso del collo.

Lo stesso per i ragazzi, che sono molto in gamba quando stanno fra di loro, ma appena incontrano qualcuno nel “mondo reale”, si azzittiscono d’imbarazzo e si rivelano in definitiva incapaci di avere rapporti normali con gli altri.

Nel finale, dopo aver compiuto la loro ultima bravata, con tanto di profanazione di cadavere, senza farsi scrupolo di tradire la fiducia di chi ha cercato di aiutarli a proprie spese, tornano a isolarsi dal mondo – che proprio non fa per loro – pur scendendo a compromessi con questo. 

Non che ci sia bisogno di dirlo, data l’evidenza, ma la morale della favola è che chi inneggia alla giustizia sociale (magari festeggiando il compleanno di Noam Chomsky anziché la ricorrenza natalizia standard, come si vede in una scena deliberatamente stucchevole) e a un mondo migliore in generale non è che un retrogrado sociopatico che fa meglio a restarsene alla larga dalla civiltà.

Eloquente, al riguardo, il tema dell’università: il figlio più grande ha ricevuto e conservato le lettere di ammissione alle più prestigiose università d’America, che lui vorrebbe frequentare; il padre, quando lo scopre, lo dissuade (che se ne fa uno in gamba come te dell’istruzione borghese?) poi lo critica per averglielo tenuto nascosto, senza dargli la possibilità di replicare e interrompendolo a ogni passo. Conclusione: il ragazzo prenderà un volo per la Namibia («Perché proprio la Namibia?» «Così, ho puntato il dito sulla mappa ed è venuta fuori»). Come a dire: avrebbe potuto aspirare alle cose più alte; e finisce per sprecare la propria vita in un posto qualunque, senza uno scopo.

Dal punto di vista più squisitamente filmico, ci sono lunghissimi momenti di noia, generati dall’assenza di un vero traino narrativo per lo spettatore: noia che sembrerebbe un ulteriore difetto, ma che è in realtà funzionale a far percepire a chi guarda che tutta quella loro rivendicazione socio-politica che vorrebbe essere universale… non è altro che una fissazione familiare (di cui peraltro il padre finisce per pentirsi, almeno in parte, nella seconda metà); dimodoché lo spettatore finisce per essere annoiato tanto dagli eventi quanto dal messaggio. Con qualche errore di montaggio e un’abusatissima scena della rasatura del padre (il taglio della peluria facciale come simbolo del cambiamento è ormai un cliché) mentre la scena finale della rasatura del figlio – suo emulo – è intollerabilmente didascalica.

Autore: Paolo Calabrò

Mental Coach professionista ai sensi della L. 4/2013-Norma UNI 11601:2024, laureato in scienze dell'informazione e in filosofia, collaboro con l'Opera Omnia in italiano di Raimon Panikkar. Dirigo con Diego Fusaro la collana di filosofia "I Cento Talleri" dell'editore Il Prato e con Daniele Baron la rivista online «Filosofia e nuovi sentieri». Ho pubblicato in volume i saggi: – EDITING. Manuale per la revisione del testo in 101 passi (Il Prato, 2024); – Pensiero in azione. Politica e morale nella filosofia pratica di Raimon Panikkar (Il Prato, 2024); – Il rischio di pensare. Scienza e paranormale nel pensiero di Rupert Sheldrake (Progedit, 2020); – Ivan Illich. Il mondo a misura d'uomo (Pazzini, 2018); – La verità cammina con noi. Introduzione alla filosofia e alla scienza dell'umano di Maurice Bellet (Il Prato, 2014); – Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne (Diabasis, 2011) e i libri di narrativa noir: – Troppa verità (2021), romanzo noir di Bertoni editore (2021); – L'albergo o Del delitto perfetto (2020), sulla manipolazione affettiva e la violenza di genere, edito da Iacobelli; – L'abiezione (2018) e L'intransigenza (2015), romanzi della serie "I gialli del Dio perverso", edita da Il Prato, ispirati alla teologia di Maurice Bellet; – C'è un sole che si muore (Il Prato, 2016), antologia di racconti gialli e noir ambientati a Napoli (e dintorni), curata insieme a Diana Lama.

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