Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Questo mondo non è un albergo

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L’immagine dell’hotel come metafora del capitalismo

Introduzione

Ci sono immagini eloquenti che hanno mostrato in sintesi gli aspetti peggiori del capitalismo1. La prima, celeberrima, è quella di Kierkegaard:

In un teatro scoppiò un incendio dietro le quinte. Un clown uscì sul palcoscenico e avvisò il pubblico. Gli spettatori pensarono che si trattasse di uno scherzo e applaudirono. Il clown ripeté l’annuncio, con sempre maggior divertimento dei presenti. È così, immagino, che il mondo verrà distrutto: tra l’ilarità generale dei buontemponi, convinti che sia tutto un gioco2.

Metafora potentissima di una società ormai incapace di distinguere la realtà dalla finzione, potenzialmente in grado di salvare se stessa ma di fatto troppo presa dall’ebbrezza del divertimento per riuscirci. La seconda viene dal filosofo francese Maurice Bellet, che parla del nostro tempo come affetto dal cancro:

Quello descritto è un movimento che, muovendo congiuntamente dal profondo e dal punto più alto, come pure dal nucleo inattingibile, suscita tutte le potenzialità umane. E, in verità, tale movimento ha una sola legge: vita, creazione, essere, al massimo livello possibile! Nondimeno, il suo nemico mortale è quel cancro che, col pretesto di infrangere i limiti, prolifera nel mostruoso (e i nostri tempi rientrano in questa condizione)3.

C’è tuttavia un’immagine che ricorre: quella dell’hotel, inteso come metafora della condizione dell’uomo nella società capitalistica. Che per la sua immediatezza, oltre che per la profondità, va oltre la sfera della riflessione filosofica per approdare a quella della cultura popolare. Accostamento che abbiamo tentato qui nell’esaminare dapprima il testo della canzone Hotel California degli Eagles (1977), poi quello del monumentale La distruzione della ragione di György Lukács (per la parte relativa al Grand Hotel Abisso). In che modo e in che senso questi due testi ci presentano il capitalismo dei nostri giorni? è la domanda a cui tenteremo di rispondere. Nelle Conclusioni proveremo a spiegare i motivi della potenza evocativa di queste immagini, con l’aiuto degli studi di Marc Augé, in particolare quello sui nonluoghi.

Hotel California

La canzone4 si apre con lui, protagonista e narratore in prima persona della storia, che si trova su un’autostrada nel deserto, tutt’intorno è buio, è sera e lui avverte il bisogno di riposarsi (I had to stop for the night) perché la testa comincia a pesargli (my head grew heavy). Lui viene catturato dall’insegna luminosa e pensa tra sé: “Questo sarà il paradiso, oppure è l’inferno” (And I was thinkin’ to myself “This could be heaven or this could be hell”). In effetti, è troppo bello per essere vero: nel mezzo del deserto, una donna che lo accoglie sotto un’insegna luminosa… il dubbio è legittimo. Arriva così all’Hotel California, descritto come un luogo incantevole (such a lovely place) dalle voci che gli danno il benvenuto dall’interno (“I thought I heard them say: Welcome to the Hotel California”). La prima delle qualità che l’albergo possiede è la sua ampia disponibilità di camere (plenty of room at the Hotel California), una disponibilità che sembra estendersi all’infinito, senza limiti di tempo (any time of year you can find it here).

All’inizio della seconda strofa, parla ancora di lei, con ogni evidenza, dell’unica donna incontrata finora (Her mind); ma ci sono anche altre persone nell’hotel, perché lui ha appena detto che li ha sentiti parlare (I thought I heard them say). Lei non fa che pensare ai gioielli, al lusso, alla ricchezza (Tiffany-twisted) e alla griffe (Mercedes Benz5) e tiene con sé dei giovinetti, si direbbe (she got a lot of pretty boys). E lui continua a sentire quelle voci (and still, those voices are calling from far away), anche se non si vede nessuno.

Seguono immagini di lussuria e godimento sfrenati, senza limiti o inibizioni – specchi al soffitto, champagne rosa con ghiaccio (Mirrors on the ceiling, the pink champagne on ice) – e il commento della stessa donna “We are all just prisoners here of our own device”. Anche quando si riuniscono per fare baldoria, non si tratta di un momento rilassato, di divertimento rigenerante, ma di un frangente teso dove ci sono “coltelli d’acciaio” (steely knives) con i quali si prova a uccidere la bestia, per liberarsi evidentemente, cosa che risulta però impossibile (But they just can’t kill the beast6). Per inciso, l’immagine del capitalismo ovvero del meccanismo di produzione capitalistico come di una bestia (o finanche di un mostro) è a sua volta ricorrente: Panikkar per esempio ha parlato dell’apparato tecnocratico moderno citando il detto orientale “Chi cavalca una tigre non può scendere”; Marx nel Capitale ha caratterizzato il capitalismo come un vampiro7, immagine ottimamente ripresa nel romanzo Sangue e plusvalore di Luca Cangianti, in cui vediamo appunto la macchina produttiva nutrirsi letteralmente del sangue degli operai. Motivo per cui è impossibile ucciderla: finché ci sarà qualcuno a darle nutrimento, la bestia rimarrà in vita.

L’ultima cosa che ricordo – dice infine il protagonista – è che stavo correndo verso la porta (I was running for the door); quindi la sua è una fuga, in cerca di un varco che lo riporti dov’era, all’aperto, fuori da questa gabbia di matti. A quel punto, l’Hotel California si rivela essere, come si sospettava, un inferno da cui evadere, non il paradiso che pur si prometteva. Ma l’uomo alla reception gli dice di rilassarsi (“Relax” said the night man) e di lasciar perdere, perché loro lì sono organizzati per accogliere (We are programmed to receive), non certo per lasciar andar via nessuno, cosa che è impossibile (You can check out any time you like but you can never leave!).

Testo visionario al punto da suscitare interpretazioni diversissime8. Nessuno, tuttavia, a quanto ci consta, ha mai visto in Hotel California la metafora della condizione umana nel capitalismo odierno. A partire da dettagli come la pubblicità, rinvenibile nell’immagine della donna che, sulla soglia, lo invita a entrare (immagine tipica del soggetto femminile, sovente in abiti succinti, abbinata a qualunque merce si voglia vendere); dai toy-boy della stessa donna, che rinviano al culto della giovinezza dell’epoca contemporanea, propagandato in tutti i modi – dall’ossessione per la forma fisica, a pillole e droghe per avere a sessant’anni la resistenza di un ventenne; dal nome del luogo, che anziché essere qualcosa di astratto – Ritz, Jolly, Majestic – è invece il nome di un luogo geografico, il che conduce immediatamente all’associazione mentale tra quel luogo e il corrispondente Stato americano (per estensione, si può pensare all’identificazione tra l’hotel e il mondo intero; anche perché, a parte il nome, manca nel testo qualunque altro elemento che possa permettere di associare il luogo descritto alla California reale).

Ma ancor più, ciò che conduce all’interpretazione sono gli elementi di ordine generale. In primo luogo, il riferimento al tempo illimitato, che fa pensare al presente-senza-tempo, sempre uguale a se stesso, che caratterizza i nonluoghi di Augé (ne parleremo in seguito), tipico delle celebrazioni del capitalismo à la Fukuyama9 nelle quali il sistema socioeconomico attuale viene dipinto come punto d’arrivo della storia e come situazione non migliorabile, ancorché non perfetta10; da cui scaturisce l’impossibilità di cambiare le cose, e dunque l’eternità di un presente destinato a ripetersi11.

In secondo luogo, le voci che si sentono senza vedere nessuno, metafora nella metafora, di una propaganda che si rivolge al singolo individuo, atomizzato al punto da non avere relazioni con nessun altro se non con coloro che lo introducono al consumo (la donna sulla soglia, il portiere di notte) e indotto a nient’altro che al godimento individuale; propaganda che lo sveglia perfino nel cuore della notte (wake you up in the middle of the night) perché non smette mai (secondo l’adagio “I soldi non dormono mai”).

In terzo luogo, l’impossibilità di evadere. Fuor di metafora, l’impossibilità di pensare a un modo di vita diverso: come detto, il capitalismo moderno pensa se stesso come un punto d’arrivo, rispetto al quale qualunque alternativa sarebbe un ritorno a qualcosa di peggio già visto in precedenza. Parafrasando Churchill, dell’Hotel California scopriamo che, sì, è il posto peggiore dove il protagonista potesse arrivare; ma solo a eccezione di tutti gli altri. Concezione che chiarisce anche l’immagine del deserto con cui il pezzo si apre: a sua volta metafora della lunga avventura storica delle forme di governo vissute dall’umanità, monarchie, dittature, totalitarismi. Il deserto può essere inteso come mancanza nella storia di alternative migliori; dimodoché, lui arriva al capitalismo per esclusione, perché tutti i sistemi di governo hanno fallito, in particolare quelli più cruenti (quelli del Novecento), e gli sembra che questo che ha raggiunto sia un posto dove poter riposare. Ma è solo una sensazione: infatti, nonostante la retorica che tende a presentarlo come il meno peggio, lui prova a fuggire perché restare lì non gli sembra possibile. E gli viene impedito: non si esce dall’Hotel California una volta entrati. È possibile lasciare la stanza, certo, ma solo a patto di prenderne un’altra (puoi cambiare preferenze di consumo, ma non puoi smettere di consumare: sono tutti prigionieri dello stesso meccanismo che hanno prodotto – we are all just prisoners here of our own device)12. L’Hotel California – il capitalismo – si presenta infine come un sistema totalitario chiuso che non permette alternative13.

Grand Hotel Abisso

Dove porta dunque questa strada? La risposta non è tanto difficile, crediamo: diritti in una camera del Grand Hotel “Abisso”.

G. Lukács14

«Grand Hotel “Abisso”» è un articolo di György Lukács del 193315. Ma l’immagine è ripresa anche nel capolavoro dell’autore La distruzione della ragione16 nel quale, a proposito degli esiti sociali del sistema di Schopenhauer – ma più in generale dell’utilità e delle conseguenze sociali di un certo tipo di filosofia irrazionalistica e nichilistica – si parla di un hotel, appunto, situato sull’«abisso del nulla» e sul «tetro sfondo dell’assurdità dell’esistenza», i quali «non fanno che aggiungere un fascino piccante a questo godimento della vita»: l’hotel è infatti «elegante e moderno», «fornito di ogni comodità», e il solo trovarcisi dentro dà già la piacevole sensazione di far parte di un’élite (a differenza di quelli che ne sono esclusi, «plebe miserabile e ottusa»). Piacere amplificato dalla posizione geografica: «La vista giornaliera dell’abisso, fra piacevoli festini e produzioni artistiche, non può che accrescere il gusto di questo comfort raffinato».

Nonostante l’immagine sia nata come rappresentazione di un ceto intellettuale (Schopenhauer, il Circolo di Francoforte) che tende ad astrarsi dalla realtà e quindi, indirettamente, ad accettarla così com’è, rinunciando così a un tempo all’idea di una giustizia sociale e alla prassi della trasformazione in meglio del mondo, anch’essa – al di là delle intenzioni originarie dell’autore – descrive molto bene la società capitalistica e la condizione dell’uomo che ci vive. Infatti, il primo punto della caratterizzazione è proprio l’ingiustizia sociale, raffigurata nello scarto fra chi si trova dentro e chi invece è all’esterno (e, con ogni probabilità, dato il comfort offerto, è impossibilitato ad accedervi). L’hotel si colloca geograficamente sull’abisso, immagine eloquente del nulla, vuoto senza fondo, simbolo della mancanza di senso di un sistema (l’hotel, appunto, con il suo funzionamento e tutto ciò che mette a disposizione; proprio come il capitalismo) basato sulla mancanza di senso della vita umana: tutto questo consumare, festeggiare e rivoltarsi negli agi dell’albergo non conferisce nessun senso alla vita che vi si conduce; e anzi tale meccanismo può continuare a funzionare solo in assenza di un tale senso: l’hotel diventa così destino di una vita umana senza scopo, in cui tutti i giorni sono uguali, tutti gli uomini sono uguali – sono tutti cioè ugualmente e indistintamente consumatori dei medesimi beni e servizi – e in cui il presente diventa dunque eterno, essendo sparita ogni prospettiva di cambiamento dall’orizzonte degli uomini. Prospettiva senza speranza – la speranza è infatti proprio l’idea opposta, ovvero che ciò che c’è non è tutto ciò che potrebbe esserci e che ciò che siamo non è tutto ciò che potremmo essere. La condizione del Grand Hotel Abisso e dell’uomo che vi risiede è dunque disperata

A nulla valgono tutte le comodità offerte – come le merci messe in vetrina a ciclo continuo dal capitalismo – che riducono la libertà dell’uomo, che potrebbe essere libertà creatrice dell’inedito, a facoltà di scelta fra confezioni differenti in mezzo allo scaffale di un supermercato. 

Caratteristica saliente dell’hotel, quella di affacciare, appunto, sull’abisso: in ogni momento gli ospiti dell’hotel – che perlopiù immaginiamo si lascino distrarre dai tanti luccichii – possono affacciarsi sull’abisso, sentirne la vertigine, paventarne il rischio – non è questa forse la condizione dell’uomo occidentale del terzo millennio sopraffatto da guerre, crisi economiche, catastrofi ambientali e timori sanitari – eternamente distratto da spettacoli di ogni tipo, dalla propaganda mediatica, dalla continua e martellante offerta di prodotti a prezzo ribassato? Unico sollievo, qui è guardare l’abisso senza fondo e rallegrarsi di non esserci ancora sprofondati.

L’hotel, eccellenza dei nonluoghi

Perché l’hotel? Perché l’hotel è un nonluogo.

I nonluoghi sono spazi – centri commerciali, aeroporti ecc. – isolati dalla realtà cittadina e caratterizzati dall’assenza di scambi sociali. Spazi che per il loro essere intrinsecamente di transito, e finalizzati a una certa funzione, vengono utilizzati e consumati più che essere vissuti (prima attinenza con il capitalismo: il consumo come cifra dell’essere, la forma-merce come sostanza). Luoghi che potrebbero stare ovunque indipendentemente da ciò che li circonda, in quanto privi di identità, di storia e di relazioni17 – come è facile dedurre anche semplicemente osservando gli alberghi delle grandi catene internazionali, uguali in tutto il mondo (seconda attinenza con il capitalismo: il medesimo prodotto dovunque – cfr. Fusaro 2017: 151). E che in tal modo ci forniscono l’impressione che il mondo sia uniforme, uguale dappertutto (Augé 2024: 26). Più in generale,

se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi identitario, relazionale, storico, definirà un nonluogo (Augé 2024: 121).

Una conseguenza del sorgere di questo nuovo tipo di (non)luogo, che avviene nell’ambito della surmodernità18, è che qui il vecchio e il nuovo non si integrano in un paesaggio moderno che reca tracce dell’antico su cui sorge; qui il moderno tende a soppiantare l’antico fino a nasconderlo, relegandolo in spazi dedicati in cui questo sopravvive nella forma dei “luoghi della memoria”, circoscritti e specifici (Augé 2024: 122). Il passato in tal modo smette di essere la nostra radice – da cui ci nutriamo – e il nostro pregresso – da cui, ricordando, impariamo: 

Ciò che contempla lo spettatore della modernità è l’embricatura dell’antico e del nuovo. Quanto alla surmodernità, essa fa dell’antico (della storia) uno spettacolo specifico, proprio come fa con tutti gli esotismi e tutti i particolarismi locali. La storia e l’esotismo svolgono lo stesso ruolo delle “citazioni” nel testo scritto, ruolo espresso a meraviglia nei depliant delle agenzie di viaggio. Nei nonluoghi della surmodernità vi è sempre un posto specifico – in vetrina, su un manifesto, a destra dell’aereo, a sinistra dell’autostrada – per le “curiosità” presentate come tali: gli ananas della Costa d’Avorio, Venezia città dei Dogi, la città di Tangeri, il sito di Alésia. Ma essi non operano alcuna sintesi, non integrano nulla, autorizzano solo, per il tempo di un percorso, la coesistenza di individualità distinte, simili e indifferenti le une alle altre (Augé 2024: 155).

Ecco che la storicità ne risulta azzerata, e il presente sembra eternizzato, come se fosse lì da sempre (terza attinenza con il capitalismo – cfr. Fusaro 2015: 31). Così Augé 2024:

Esso non lascia spazio nemmeno alla storia, semmai la trasforma talora in elemento di spettacolo, il più delle volte in testi allusivi. L’attualità e l’urgenza del momento presente vi regnano. […] Il passeggero dei nonluoghi sperimenta […] il presente perpetuo (148-149).

In più, i nonluoghi – quarta attinenza con il capitalismo – creano una «contrattualità solitaria» (Augé 2024: 138), nella quale l’individuo è isolato, in quanto non vive nessuna esperienza relazionale con gli altri, ciascuno dei quali si trova nella medesima solitaria relazione contrattuale, che «gli viene ricordata al momento opportuno (le modalità d’uso del nonluogo ne sono un elemento): il biglietto che ha comprato, il tagliando che dovrà presentare al pedaggio, o anche il carrello che spinge attraversando il supermercato» (Augé 2024: 146).

In un certo senso l’utente del nonluogo è sempre tenuto a provare la sua innocenza: il possesso del documento d’identità, del titolo di viaggio, qualcosa che lo affranchi dalla colpevolezza di trovarsi lì a titolo abusivo: «Il controllo a priori o a posteriori dell’identità e del contratto pone lo spazio del consumo contemporaneo sotto il segno del nonluogo: vi si accede solo se innocenti» (Augé 2024: 147). Perché nel capitalismo (quinta attinenza) nessun peccato è più grave del consumare senza pagare. Si potrebbe leggere in questa chiave (oltre che in riferimento al senso di colpa per la fruizione di qualcosa da cui si sa che tantissimi altri sono esclusi) il riferimento della canzone contenuto nel verso: Bring your alibis. Come potrai giustificarti? Qual è il tuo alibi?

Conclusioni

L’hotel, insomma, è la metafora ideale del capitalismo moderno. Presenta immediatamente il privilegio dei pochi a scapito dei molti e il senso di colpa che ne deriva. L’illusione di poter stare insieme ad altri mentre in realtà ci si trova da soli di fronte a delle prestazioni professionali prezzolate; di potersi godere la vita mentre, a ben vedere, la situazione è disperata (l’hotel affaccia sull’abisso; oppure si presenta infine come un inferno anziché un paradiso). E di potersela godere per un tempo indefinito; mentre, in effetti, in hotel non si è che di passaggio e tra un po’ – qualche giorno, qualche settimana – si tornerà tutti alla normalità degli obblighi e degli affanni (Augé 2024: 147). L’hotel è la finzione che tutto sia uguale dappertutto e che sarà per sempre così. Ma la verità è che il contesto è importante e ineliminabile (con buona pace di Remment “Rem” Koolhaas e del suo “Fuck the context”, cit. in Augé 2024: 31). E che la realtà – ogni realtà – è storica, viene da un passato e va verso un futuro che nessuno sa ancora dove conduca. L’unica cosa che si sa è che questa non è la fine della storia.

Bibliografia

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  • Abbagnano 1993, N., Dizionario di filosofia, TEA, Milano.
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  • Bellet 20002, M., Il corpo alla prova o della divina tenerezza, servitium, Gorle (BG) [ed. orig. L’épreuve ou le tout petit livre de la divine douceur, Desclée De Brouwer, Paris 1988. Tr. it. di E. D’Agostini].
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  • Fusaro 2014 [a], D., Il futuro è nostro. Filosofia dell’azione, Bompiani, Milano.
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  • Fusaro 2015, D., Europa e capitalismo. Per riaprire il futuro, Mimesis, Milano.
  • Fusaro 2017, D., Pensare altrimenti, Einaudi, Torino.
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  • Goethe 2018, J.W., Faust, Rizzoli, Milano [ed. orig. Faust. Tr. it. di G. Manacorda].
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  • Marx 1994, K., Il Capitale. Critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma [ed. orig. Das Kapital. Kritik der politischen Oekonomie. Tr. it. di D. Cantimori].
  • Panikkar 2021, R., Spazio, tempo e scienza, Opera Omnia, vol. XII, Jaca Book, Milano.
  • Quinzio 1998, S., I Vangeli della Domenica, Adelphi, Milano.
  • Traverso 2022, E., Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács fra nazismo e stalinismo, Ombre corte, Verona.

  1. Di seguito si userà il termine “capitalismo” per alludere non soltanto a una teoria e a un modo della produzione, bensì alla forma odierna di organizzazione socio-economica occidentale che ha a che fare con il consumismo, la spettacolarizzazione, l’atomizzazione della società e il conseguente culto narcisistico dell’individuo ecc.; secondo una modalità diffusa in letteratura. Così ad es. R.W. McChesney (Introduzione a Chomsky 1999: 9) per il quale si tratta di un «paradigma economico-politico che definisce il nostro tempo: indica l’insieme delle politiche e dei processi che consentono a un gruppo relativamente ristretto di interessi privati di controllare il più possibile la vita sociale allo scopo di massimizzare i propri profitti». Il mercato non è infatti un mero fenomeno economico, bensì «una totalità espressiva che, nella sua riproduzione, va a investire l’interezza dell’esistenza umana e delle sue determinazioni operative e “sovrastrutturali”» (Fusaro 2012: 41).
    ↩︎
  2. Riportata in Quinzio 1998.
    ↩︎
  3. Bellet 1998: 74. Cfr anche Bellet 2000: 98. L’immagine si ritrova in altri autori anche molto diversi tra loro. Cfr. ad es. Panikkar 2021: 415, a proposito della mentalità tecnocratica moderna. Cfr. anche Fusaro 2014 [a]: «Il paradosso risiede, allora, nel fatto che, nell’atto stesso con cui persegue l’insensato progetto della crescita illimitata in nome della sacra norma del voler-avere-di-più, rimuovendo l’idea di fine, il poderoso supplizio tantalico chiamato globalizzazione lavora alla sempre più rapida creazione della fine reale, nella forma dell’estinzione della vita e del pianeta. In ciò esso rivela una macabra affinità con le cellule cancerogene, che portano alla morte il corpo che ne ospita il riprodursi smisurato» (182).
    ↩︎
  4. Ringrazio Luken e Chiara Borrelli per l’aiuto nella traduzione e nell’interpretazione del testo inglese.
    ↩︎
  5. Qui c’è un gioco di parole in inglese basato sull’assonanza fra i termini “Benz” e “bends” (aveva le curve di una Mercedes).
    ↩︎
  6. Allusione all’uso di tagliare la cocaina in strisce: ma la sostanza che ti lega a sé rimane una bestia che non può essere uccisa con i coltelli usati per tagliarla. Immagine che, unita all’ambiguo riferimento alla cannabis in apertura (colitas), accredita l’ipotesi alternativa a quella qui presentata del testo della canzone come metafora dell’esperienza allucinata causata dalla droga.
    ↩︎
  7. Marx 1994 (Libro Primo, Parte III, Capitolo 8): «Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia» (267).
    ↩︎
  8. Nessuna però definitiva: gli Eagles non hanno mai rilasciato dichiarazioni ufficiali al riguardo. Il che ha autorizzato le interpretazioni più disparate: dalla critica all’industria discografica californiana al naufragio del sogno americano; fino a quella, poc’anzi citata, dell’esperienza con le sostanze stupefacenti. Ai fini di questo studio non rileva quale sia la spiegazione “autentica” (ammesso che una spiegazione originaria vi sia e sia unica); interessa solo che sia possibile intendere il testo al modo che proporremo.
    ↩︎
  9. La fine della storia e l’ultimo uomo, RCS, Milano 2003. Al riguardo, cfr. gli studi Augé 2009 e Fusaro 2014 [a].
    ↩︎
  10. Cfr. al riguardo Fusaro 2015: 91 e Fusaro 2014 [b]: 18.
    ↩︎
  11. Fusaro 2018: 292.
    ↩︎
  12. Cfr. Goethe 2018, 7000-7004: «Codesto signor cugino non è poi da disprezzare. Dopotutto, dipendiamo sempre dalle creature a cui abbiamo dato la vita!» (531).
    ↩︎
  13. Per approfondire quest’ultima questione in particolare, v. Fusaro 2021; 2017.
    ↩︎
  14. In Traverso 2022: 127.
    ↩︎
  15. Pubblicato postumo in ungherese nel 1977 e oggi leggibile in italiano in Traverso 2022: 89-130.
    ↩︎
  16. Lukács 2011: 248.
    ↩︎
  17. Per Marco Aime, che firma l’Introduzione ad Augé 2024, i nonluoghi sono il sintomo di una crisi che coinvolge le coscienze, a causa del sempre minore interesse per la collettività e la mancanza di valori; le relazioni, sempre meno intense in seguito al ripiegamento su noi stessi; le finalità, cioè la mancanza di un orizzonte comune a cui tendere (7-14).
    ↩︎
  18. La nostra contemporaneità, successiva alla modernità della Rivoluzione industriale, la quale ha visto per la prima volta la tecnica e le macchine diffondersi non solo concettualmente e produttivamente, ma anche spazialmente, divenendo qualcosa con cui non solo la mentalità dei cittadini ma anche l’occhio doveva fare i conti.
    ↩︎

Autore: Paolo Calabrò

Mental Coach professionista ai sensi della L. 4/2013-Norma UNI 11601:2024, laureato in scienze dell'informazione e in filosofia, collaboro con l'Opera Omnia in italiano di Raimon Panikkar. Dirigo con Diego Fusaro la collana di filosofia "I Cento Talleri" dell'editore Il Prato e con Daniele Baron la rivista online «Filosofia e nuovi sentieri». Ho pubblicato in volume i saggi: – EDITING. Manuale per la revisione del testo in 101 passi (Il Prato, 2024); – Pensiero in azione. Politica e morale nella filosofia pratica di Raimon Panikkar (Il Prato, 2024); – Il rischio di pensare. Scienza e paranormale nel pensiero di Rupert Sheldrake (Progedit, 2020); – Ivan Illich. Il mondo a misura d'uomo (Pazzini, 2018); – La verità cammina con noi. Introduzione alla filosofia e alla scienza dell'umano di Maurice Bellet (Il Prato, 2014); – Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne (Diabasis, 2011) e i libri di narrativa noir: – Troppa verità (2021), romanzo noir di Bertoni editore (2021); – L'albergo o Del delitto perfetto (2020), sulla manipolazione affettiva e la violenza di genere, edito da Iacobelli; – L'abiezione (2018) e L'intransigenza (2015), romanzi della serie "I gialli del Dio perverso", edita da Il Prato, ispirati alla teologia di Maurice Bellet; – C'è un sole che si muore (Il Prato, 2016), antologia di racconti gialli e noir ambientati a Napoli (e dintorni), curata insieme a Diana Lama.

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