Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

L’ONU, tra apparenza e realtà

Lascia un commento

>Serafino Di Sanza*

Sommario

  1. Introduzione; 2. Le sabbie mobili del Consiglio di Sicurezza; 3. L’impostura umanitaria; 4. Una via d’uscita dal limbo.

1. Introduzione

Nel 1946, il grande scrittore George Orwell pubblicò sulla rivista politica Tribune un articolo intitolato Sotto il naso, in cui elencò una serie di esempi di schizofrenia (in neolingua, doublethink), ovvero quella capacità di «sostenere al contempo due opinioni incompatibili e credere a entrambi, pur vedendone la contraddizione» (Orwell, 2021, p. 395). Tra i dati di fatto che vengono abilmente elusi da intellettuali, burocrati e politici di professione, Orwell annoverò le Nazioni Unite, organizzazione intergovernativa che, secondo lo Statuto, avrebbe avuto, dopo due catastrofiche guerre mondiali, il compito di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra» e di «mantenere la pace e la sicurezza internazionale». Orwell – che non fu di certo un giurista, ma un amante della verità – nota una contraddizione sostanziale tra gli obiettivi di fondo dell’ONU e i suoi poteri effettivi; tra le dichiarazioni ufficiali, i discorsi solenni, le candide promesse dei singoli Stati membri e i loro comportamenti in seno all’Organizzazione. Ecco le parole di Orwell:

Per avere un’efficacia qualsiasi, un’organizzazione internazionale deve essere in grado di prevalere sui grandi Stati, oltre che su quelli più piccoli. Deve avere il potere di ispezionare e limitare gli armamenti, il che significa che i suoi funzionari devono avere accesso a ogni centimetro quadrato di qualunque Paese. Deve anche avere a sua disposizione una forza armata più grande di qualsiasi altra forza armata, e che sia responsabile solo nei confronti dell’organizzazione stessa. I due o tre grandi Stati che contano davvero non hanno nemmeno fatto finta di accettare una qualsiasi di queste condizioni, e hanno organizzato la costituzione delle Nazioni Unite in modo tale che le loro azioni non possano neppure esser messe in discussione. In altre parole, l’utilità delle Nazioni Unite come strumento di pace mondiale è nulla. Questo è ovvio prima che iniziasse ad agire, come è ovvio oggi. Eppure, solo pochi mesi fa, milioni di persone competenti credevano che l’O.N.U. sarebbe stato un gran successo. (Orwell, 2021, p. 96)

Sorte in apparenza come strumento internazionale per la risoluzione dei conflitti, le Nazioni Unite si sono rivelate in realtà un mezzo usato dagli Stati più influenti per giustificare gli effetti delle loro azioni. L’ONU, per come è stata strutturata, sarebbe stata condannata fin dall’inizio all’inefficacia e alla subalternità, ad essere un bastone o uno schermo ingannatore a disposizione dei Grandi della Terra. Piegato al principio della ragion di Stato, il diritto rischia di dimenticare il linguaggio della verità e di subire con lassismo quello del potere statuale. Invece di costituire un valido contropotere ai numerosi monopoli della forza, il diritto corre il rischio di essere spodestato dal bellicismo di quegli organismi burocratici chiamati “Stati”. È per questo che vorrei mettere in luce l’assunto fondamentale da cui questo saggio ha origine: non ci sarà pace finché la maggior parte delle entità statuali non cederanno un pezzo del loro immenso potere a un organismo sovranazionale che agisca su vasta scala, che sia dotato di forza propria e che ponga al di sopra di tutto il valore della vita umana. Prima di chiederci se questo progetto sia davvero attuabile, è utile dimostrare come l’ONU abbia fallito nella sua missione originaria di garantire una pace duratura, evidenziando al contempo la spregiudicata soverchieria di alcuni Stati, che non si sono peritati ad aggirare le raccomandazioni dell’Organizzazione, di cui formalmente fanno parte, e ad approfittare dell’immobilismo del Consiglio di Sicurezza per perseguire i loro interessi.

2. Le sabbie mobili del Consiglio di Sicurezza

Come recita la Carta dell’ONU all’articolo 23.1, il Consiglio di Sicurezza, principale organo decisionale dell’Organizzazione, «si compone di quindici Membri delle Nazioni Unite. La Repubblica di Cina, la Francia, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il Regno Unito di Gran Bretagna e l’Irlanda Settentrionale e gli Stati Uniti d’America sono Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.» All’articolo 27 si chiarifica invece la procedura di votazione in seno al Consiglio, procedura che contempla il famigerato diritto di veto (anche se non è esplicitamente menzionato): «Le decisioni del Consiglio di Sicurezza su ogni altra questione sono prese con un voto favorevole di nove Membri, nel quale siano compresi i voti dei Membri permanenti.» Sembra evidente che era ben lungi dalle intenzioni dei grandi Stati far nascere una forte, efficace, equa e democratica organizzazione sovranazionale. Troppo spesso alcuni Stati membri del Consiglio si sarebbero avvalsi del potere di veto in totale spregio delle norme di ius cogens, delle disposizioni della stessa Carta e dagli obblighi derivanti da alcune Convenzioni d’importanza capitale – si pensi alla Convenzione sul genocidio o alle Convenzioni di Ginevra del 1949. Sarebbe addirittura bastata la sola minaccia di veto da parte di un membro permanente per far inceppare tutto il meccanismo bizantino delle Nazioni Unite, condannando quasi sempre l’Organizzazione ad uno stato di emiplegia: una parte del suo corpo funziona e opera discretamente (l’Assemblea Generale), mentre l’altra metà non riesce a muoversi. Gli anni del bipolarismo ideologico avrebbero dimostrato a più riprese questo dato di fatto.

Fallito il tentativo dell’accentramento della forza, a causa della mancata applicazione degli artt. 43 e ss. della Carta, e paralizzato il Consiglio dalle contrapposizioni della guerra fredda, lo strumento principale di azione delle Nazioni Unite divenne il peacekeeping, cioè operazioni di interposizione che, secondo il modello disegnato dal Segretario generale Dag Hammarskjöld nel contesto della crisi di Suez del 1956, si sarebbero servite esclusivamente di truppe messe a disposizione da medie potenze e non provenienti dai membri permanenti, dato che lo scopo di queste operazioni era di immunizzare crisi periferiche dal batterio della guerra fredda [vedi le azioni di peacekeeping nel Congo Belga (1960-64) e a Cipro (1963)]. Il risultato fu che tra il 1945 ed il 1989 i membri permanenti fornirono quasi sempre contributi marginali dal punto di vista militare, ridimensionando così l’effettività dell’organizzazione. (Finizio, 2008, p. 11)

Dunque, l’esistenza del potere di veto spiega perché l’ONU sia stata messa ai margini durante i conflitti più aspri della guerra fredda (si pensi alla guerra per interposta persona in Vietnam). Con la caduta del muro di Berlino e la nascita dell’unipolarismo statunitense, il Consiglio di Sicurezza ritrovò l’unanimità, assecondando le mire espansionistiche degli atlantisti. Nello specifico, a partire dalla guerra del Golfo si aprì la mortifera campagna delle “ingerenze umanitarie”, capeggiata dall’amministrazione Bush e sostenuta dalle altre potenze occidentali.

3. L’impostura umanitaria

La definizione (paradossale) che viene offerta dal Ronzitti di “intervento umanitario” è la seguente: «Viene definito “intervento d’umanità” l’uso della forza per proteggere i cittadini dello Stato territoriale da trattamenti inumani e degradanti.» (Ronzitti, 2014, p. 49) Se dovessimo raccogliere l’invito di Misone ad indagare le parole a partire dalle cose, dovremmo scorgere la contraddizione tra il concetto di umanità e quello di violenza. Come si può attribuire l’aggettivo “umanitario” a un atto che per essere efficace ha come effetto inevitabile l’assassinio di esseri umani? Chi utilizza questo ossimoro nei discorsi politici cerca di presentare all’opinione pubblica qualcosa di mostruoso e abominevole in un’aura di bontà. Naturalmente, la morale si presta bene a qualsiasi forma di disonestà intellettuale… Come scrive Albert Camus, «tutte le morali sono fondate sull’idea che un atto abbia conseguenze che lo legittimano o lo cancellano a poco a poco.» (Camus, 2001, p. 64) Quella umanitaria è una morale che gronda sangue umano. L’ideale dell’umanità costituirebbe la giustificazione all’omicidio, l’istanza suprema a cui governanti e generali possono appellarsi in circostanze “eccezionali” per liberarsi da ogni colpa delittuosa. Invece di sublimare la potenza distruttiva delle armi, è necessario escludere qualsiasi positivizzazione della violenza. Un fenomeno negativo come la guerra non può essere giustificato da ideali positivi. La differenza tra chi vuole privare la guerra di qualsiasi positività e il nichilista bellicoso sta nel fatto che il primo è convinto che la crudeltà non è in grado di fondare alcuna civiltà umana; il secondo tenta di dar vita a un nuovo ordine mondiale proprio a partire dalla guerra e crede che quest’ultima sia fondamentale per affermare e imporre i propri interessi. D’altronde, l’uso della forza è ammissibile soltanto in un caso: se una potenza nichilista avesse minato la stabilità internazionale, e se tutti i mezzi diplomatici si fossero rivelati inefficaci ad indurre lo Stato offensore a cessare le ostilità, allora sarebbe necessario ricorrere alle armi per preservare quell’ordine violato. Sono invece inammissibili esportazioni armate della democrazia o guerre offensive legittimate dalla morale o dalla religione, che tentano ipocritamente di positivizzare ciò che non merita di essere nobilitato. Dunque, è bene che le distinzioni non svaniscano… Benché senta la necessità di combattere il nichilismo, colui che lotta contro i mostri non deve mai smettere di esecrare ogni forma di brutalità per non diventare anch’esso un mostro. Non si va in guerra rinfrancati da un vecchio spirito patriottardo, ma con la disperazione di chi è consapevole che la purezza dei suoi sentimenti è destinata ad essere compromessa dall’azione. È con questa lucida drammaticità che Albert Camus, durante la Seconda guerra mondiale, scrisse quattro lettere a un “amico tedesco” immaginario – un simpatizzante del nazismo. L’obiettivo era quello di contrapporre «due atteggiamenti», di tracciare un confine tra la forza e la crudeltà, tra l’energia e la violenza, tra lo spirito di libertà e giustizia e la vacuità degli istinti. «È cosa da poco – precisa Camus – saper correre al fuoco quando vi si è preparati da sempre e quando il correre è più naturale del pensare. È molto invece avanzare verso la tortura e la morte, quando si sa con certezza che l’odio e la violenza sono cose vane per sé stesse. È molto battersi disprezzando la guerra, accettare di perdere tutto conservando il gusto della felicità, correre verso la distruzione con l’idea di una civiltà superiore.» (Camus, 1948, p. 22) È presente in queste pagine un concetto caro a Camus: la misura. Agire per una giusta causa non vuol dire che tutto sia permesso. Bisogna combattere per difendere ciò che amiamo, senza mai perdere il senso della misura, perché «anche nella distruzione, c’è un ordine, ci sono dei limiti.» (Camus, 2013, p. 802) L’uso della forza deve infatti trovare un limite invalicabile nell’intangibilità della vita di civili innocenti e inermi. Fini strategici o ragioni morali non possono cancellare la morte di un solo bambino.

La misura ci consente dunque di scorgere al di là dell’azione puramente distruttiva l’affermazione di un ideale costruttivo, indispensabile per evitare l’apocalisse e per edificare un ordine libero ed equo. In questa prospettiva, deve essere il diritto a limitare le azioni degli Stati e ad impedire che l’umanità oltrepassi quella sottile linea che la separa dal caos. Invece, l’azione unilaterale di alcuni Stati, risultata in certi casi dismisurata, rappresenta proprio la vittoria dell’anarchia, di quell’anarchia che la principale istituzione internazionale dovrebbe scongiurare, garantendo la stabilità attraverso regole condivise. Nell’ordinamento “civile” il diritto sembra cedere il passo all’arbitrio e all’assolutismo di una cerchia ristretta di Stati. All’interesse collettivo sembra prevalere quello particolaristico delle grandi potenze. Infatti, la prassi degli ultimi decenni ci testimonia che gli Stati autorizzati dall’organo decisionale delle Nazioni Unite a ricorrere alla forza hanno abusato dei loro poteri, credendo di agire impunemente in uno spazio extra-giuridico (vedi ad es. Somalia e Libia). E ciò fa dubitare fortemente dell’efficacia del Consiglio nel far rispettare le sue direttive. Inoltre, la frammentazione del sistema di sicurezza collettivo è la diretta conseguenza dell’immobilismo del Consiglio. L’intervento della NATO in Kosovo (non autorizzato in prima battuta dal CdS) è l’esempio emblematico dell’intrinseca incapacità dell’ONU di ergersi a supremo garante della sicurezza internazionale. Come si può garantire l’ordine, se la principale organizzazione globale non riesce a prevenire (e contrastare) le azioni unilaterali e arbitrarie di certi Stati, evitando che ci siano conseguenti violazioni di norme imperative di ius cogens? A trionfare oggi è l’impunità; a gridare allo scandalo sono le vittime di un meccanismo ingiusto. Urge dunque una vitale revisione, che deve passare per la presa di coscienza dei limiti principali del Consiglio e che deve condurre a un rafforzamento dell’Organizzazione in senso sovranazionale.

4. Una via d’uscita dal limbo

Una pars destruens deve essere accompagnata necessariamente da una pars construens, a patto che si affermi la superiorità di un ideale-limite e che ci sia al contempo la buona volontà (di tentare) di metterlo in pratica. È evidente però che ogni ideale necessita di una dose di realismo per non trasformarsi in velleità… È forse poco realistico pensare che si possa raggiungere una pace mondiale durevole con le classiche istituzioni statali e con universi valoriali antitetici. Un possibile progetto di revisione dell’architettura delle Nazioni Unite deve sì porsi come ideale-limite la pace internazionale, ma bisogna tenere ben presente che non si può prescindere dal consenso degli Stati membri. Affinché la Carta possa essere revisionata, è, infatti, necessaria (come recita l’art. 109) «la maggioranza dei due terzi dei Membri dell’Assemblea Generale», a cui deve seguire la ratifica da parte dei «due terzi dei Membri delle Nazioni Unite, ivi compresi tutti i Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.» Se da un lato la proposta di revisione deve superare lo stato-centrismo, che ha caratterizzato le proposte fino ad ora presentate (ad es. l’aumento del numero di membri permanenti), dall’altro deve fare i conti con le dinamiche e i rapporti di potere nell’attuale sistema internazionale. Partendo da questi presupposti, è interessante la tesi, caldeggiata da Giovanni Finizio nel suo inventario critico delle proposte di riforma, di un Consiglio regionale, rappresentativo delle varie organizzazioni regionali sparse per il globo:

L’unica proposta soddisfacente suggerisce la trasformazione del Consiglio di Sicurezza nella camera delle organizzazioni regionali. Essa infatti scioglie il nodo rappresentatività-efficacia, prevedendo che la rappresentanza di uno stato (e dei suoi cittadini) al Consiglio passi non attraverso un altro stato, ma attraverso un’organizzazione regionale, che tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto da diversi autori, DEVE essere sopranazionale, cioè giunta allo sviluppo di una politica estera unitaria, per non giungere all’inutile risultato di uno stato (a rotazione o eletto, fa poca differenza) che rappresenti al Consiglio un’organizzazione regionale, che a sua volta rappresenta tutti i membri. Prendendo dunque le distanze dalla logica della mera espansione della membership, essa permette di avere un organo relativamente piccolo ma estremamente rappresentativo e democratico con grande giovamento per la legittimità e per l’efficacia del Consiglio e dell’intera ONU, tenendo conto del ruolo crescente che le stesse organizzazioni regionali stanno assumendo quali security providers nelle proprie regioni e del ruolo potenziale, che necessita di una loro inclusione nell’organo, che potrebbero esercitare nell’alleggerire le Nazioni Unite dal sovraccarico di inputs da cui sono affette fin dai primi anni ’90. (Finizio, 2008, p. 92)

Dunque, si tratta, per le organizzazioni regionali, di riconoscere – non soltanto de iure – la supremazia politica, militare e giuridica delle Nazioni Unite, che avrebbero a loro volta il compito di prendere le redini di un sistema di sicurezza collettivo, oggi, purtroppo, disorganico. In mezzo a questa anomia, in un mondo che ha ormai perduto i suoi “poli”, l’ultima certezza rimasta è l’Unione Europea, archetipo di organizzazione internazionale (non ancora pienamente sovrastatale) che ha imbrigliato gli ancestrali nazionalismi in nome di un interesse comune. Il perfezionamento dell’integrazione europea dal punto di vista politico potrebbe portare all’ingresso dell’UE nel Consiglio di Sicurezza come membro permanente. A quel punto, un seggio europeo nel Consiglio rappresenterebbe un primo passo verso un possibile processo riformatore delle Nazioni Unite. 

Intanto, quello che potremmo conquistare nell’immediato è la stretta osservanza del divieto per i membri permanenti di ricorrere al diritto di veto su questioni concernenti la violazione delle norme di ius cogens. Data l’impossibilità di emendare la Carta per modificare il potere di veto, sarebbe possibile limitarne l’utilizzo da parte dei grandi cinque. Infatti, come scrive Jennifer Trahan, «sollevare argomentazioni giuridiche potrebbe contribuire ad aumentare i costi politici dei veti abusivi e potrebbe costituire un’espressione di opinio iuris, spingendo così la Corte Internazionale di Giustizia nella direzione di una sentenza favorevole.» (Trahan, 2022) Ciò costituirebbe una piccola ma importante vittoria per il diritto, il cui destino dipende essenzialmente dall’ostinazione degli esseri umani nel combattere, seppur nei limiti delle loro capacità, l’iniquità del mondo.

Bibliografia

George Orwell, 1984, in Trilogia della libertà, Garzanti, 2021

George Orwell, Sotto il naso, in Il potere e la parolaScritti su propaganda, politica e censura, Piano B edizioni, 2021

Jennifer Trahan, Concept note, Legal Parameters to the Veto Power in the Face of Atrocities Crimes, 2022.

Giovanni Finizio, Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU: un inventario critico delle proposte di riforma, Centro Studi Federalismo, 2008

Natalino Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, Giappichelli Editore, 2014

Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, 2001

Albert Camus, Lettres à un ami allemand, Éditions Gallimard, 1948

Albert Camus, Les Justes, in Œuvres, Éditions Gallimard, 2013

Autore: Serafino Di Sanza

Nato nel 2003 e cresciuto in Basilicata, ho conseguito la laurea triennale in Scienze internazionali e diplomatiche presso l'Università di Bologna e sono attualmente iscritto al corso di laurea magistrale in Filosofia e linguaggi della modernità presso l'Università di Trento. Amante del pensiero libertario, considero come miei maestri spirituali Albert Camus, Simone Weil e George Orwell. Credo nella forza rivoluzionaria della cultura, l'unica arma non violenta in grado di migliorare il mondo.

Lascia un commento