Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Essere senza mente: il saññāvedayitanirodha nei Nikāya e nel Visuddhimagga (pt. 3)

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2.6. Alcune problematiche poste dal nirodha

A questo punto, una questione che si pone è come possa darsi l’emersione dal nirodha se in esso si verifica la (temporanea) interruzione del “flusso di coscienza” (citta-santāna), composto da unità cognitive momentanee date dalla coscienza (citta) e dai suoi concomitanti (cetasika). Come può avere effetto la precedente risoluzione di uscirne dopo un certo lasso di tempo? Inoltre, se nel nirodha non c’è cognizione del mondo esterno, come lascia bene intendere la storia del monaco Mahānāga riferita da Buddhaghosa, il praticante come fa a rendersi conto quando la comunità ha bisogno di lui? Come fa a sapere quando il maestro lo convoca, se, come dice Arbel (2004: 34), “there are no external or mental stimuli which impinge on the mind or the body of a person who is in this state”? Nella tradizione Yogācāra la nozione di “coscienza deposito” (ālayavijñāna) fornisce una risposta alla questione di come la coscienza ordinaria possa riprendere dopo l’ingresso e la permanenza nel saṃjñāvedayitanirodha (Bronkhorst 2009: 160; Westerhoff 2018: 180; Griffiths 1983: 390), mentre la nozione in qualche misura similare di bhavaṅga, elaborata dalla scolastica theravāda, non è stata da questa adoprata a tale scopo esplicativo (Griffiths 1986: 39), probabilmente perché nella concezione theravāda del nirodha anche il “continuum mentale subliminale” è inteso cessare. Come, dunque, dalla prospettiva di questa scuola, si ritorni ad una condizione psicologica normale non è chiaro. Ritenere che sia la precedente “risoluzione” (adhiṭṭhāna) a consentire ciò è un’insoddisfacente ipotesi, poiché la risoluzione rientrerebbe nei cetasika, detti esplicitamente essere assenti nel saññāvedayitanirodha, secondo la definizione che se ne dà in Vism XXIII, 18. Il problema è stato rilevato da più d’uno studioso (Westerhoff 2018: 180; Griffiths 1990: 81; Hayashi 2014: 88), ma nessuno sinora è stato in grado di fornirvi una soluzione plausibile e coerentemente ammissibile in base alla tradizione Theravāda[1]. I termini della questione sono stati ben enunciati da Bronkhorst:

Mental dharmas normally succeed each other in a continuous sequence, the current mental dharma acting as the primary cause for the next one. After an interruption like the attainment of cessation, there are no mental dharmas that could produce succeeding ones. Nevertheless, the ancient discourses proclaim that it is  possible to return from the attainment of cessation.

Bronkhorst 2009: 159

Un ruolo nell’emersione dal nirodha potrebbe avere, anziché un qualsiasi elemento di carattere psicologico, l’unica cosa che in questo stato permane, ovverosia la “facoltà vitale fisica/materiale” (rūpajīvitindriya) (Boisvert 1995: 62; Collins 1982: 246), ma il processo esatto di ripristino del continuum mentale, intenzionale e subliminale, a partire dal rūpakkhandha non è stato indagato in dettaglio, e neppure in modo approssimativo, dalla tradizione theravāda. Questa soluzione, del resto, non è priva di difficoltà, poiché la scolastica theravāda propone due facoltà vitali distinte e irriducibili, una “fisica” (rūpajīvitindriya) e l’altra “mentale” (arūpajīvitindriya) (Karunadasa 2019: 151), e non si vede come esse possano interagire nel saññāvedayitanirodha, consentendo la prima di riavviare la seconda.

Di un’altra questione ora si dirà: per quale ragione il nirodha, per essere raggiunto, richiede il concorso della vipassanā, mentre tutti i precedenti jhāna possono essere conseguiti soltanto con la samatha–bhāvanā? Effettivamente, il nirodha sembra l’esito finale di una pratica squisitamente yogica, ovvero del samatha coltivato senza la vipassanā: “It is not difficult to realize that saññāvedayitanirodha embodies the essence of the yogic meditation. All the salient elements of yoga are here: breath restraint, the inactivity of the senses and the cessation of the mind” (Polak 2011: 161). Per tale ragione, “this state is much more ‘at home’ in the yogic meditative system, than it is in the Buddhist soteriology” (Polak 2011: 162). D’altra parte, già nel Dutiyakāmabhū-sutta e poi, più puntualmente, in Upatissa e Buddhaghosa si è inserito il saññāvedayitanirodha in un sistema contemplativo che comprende sia samatha che vipassanā. Rimane tuttavia tutt’altro che chiaro quale sia l’indispensabile contributo di quest’ultima. Si può ipotizzare che quello effettuato sia un tentativo di mediazione tra le due “anime” compresenti già nel buddhismo più antico (probabilmente provenienti da tradizioni diverse confluite nel movimento buddhista), ossia quella “yogica”, più incline alla coltivazione della quiete, sino ad arrivare alla soppressione di tutte le funzioni psicologiche e al totale ritiro dei sensi dai loro rispettivi oggetti, e quella “analitica”, più incline all’investigazione discriminativa dell’esperienza e dunque alla coltivazione della “visione profonda” (Collins 2010: 46). Queste due visioni differenti, non necessariamente inconciliabili, sono tendenze contemplative che Griffiths (1981) ha denominato “insight meditation” e “concentrative meditation”, sostenendo che nel corso della storia buddhista si sia tentato di coniugare, soprattutto da parte degli scolastici (ossia dei commentatori, qual era per es. Buddhaghosa), sistemi che avevano idee diverse su cosa fosse la salvezza e, contemporaneamente, idee diverse sui metodi appropriati per il suo conseguimento (Griffiths 1986: 16). Ciò avrebbe condotto, nel caso specifico del nirodha, ad una “unsatisfactory combination of two radically different kinds of soteriology” (Griffiths 1981: 616).

Un’altra questione problematica è quella relativa al come sia possibile sviluppare la “saggezza” (paññā) nel nirodha. A questo riguardo, esistono sutta[2] in cui ricorre una formula che, immediatamente seguente all’entrata nel saññāvedayitanirodha da parte del bhikkhu, dice che i suoi influssi nocivi (āsava) sono distrutti dal vedere con saggezza (paññāya cassa disvā āsavā parikkhīṇā honti), la qual cosa corrisponde alla realizzazione dello stato sommo di arahant (arahatta). Ma il problema che siffatta formula solleva è come possa sorgere paññā in uno stato acittaka: come può darsi “discernimento” in quella che Griffiths (1983: 379) ha definito “mindless trance”? Si deve supporre con Shulman (2014: 33-34) che nel nirodha in realtà permanga “a degree of awareness” (sebbene ciò vada contro la sua interpretazione maggioritaria)? Nyanaponika Thera (2010: 124) si spinge ancora oltre, parlando della “cessazione”, pur egli in controtendenza, nei termini di “highly abstract ultraconscious state”. In termini analoghi si esprime Lily de Silva (2011: 11), parlandone come “super-conscious state”. Ma come può il saññāvedayitanirodha essere uno stato di super-coscienza se la coscienza vi viene a mancare, in quanto dipendente da aggregati che in esso sono resi inoperanti, come si comprende già dal suo stesso nome (cessazione di saññā e vedayita, ovvero vedanā)? Che la coscienza dipenda dagli altri aggregati è detto esplicitamente dal Buddha stesso nel Pañcattaya-sutta (MN 102, PTS 2.229) e nell’Upaya-sutta (SN 22.53, PTS 3.52), dov’egli sostiene che non sia possibile (netaṃ ṭhānaṃ vijjati) parlare della coscienza (viññāṇa), del suo andirivieni (āgati, gati), del suo venir meno (cuti) e riapparire (upapatti), della sua crescita (vuddhi), incremento (virūḷhi) e sviluppo (vepulla) a parte (aññatra) da rūpa, vedanā, saññā e saṅkhāra.

Bhikkhu Payutto (2021: 902) ritiene che “it is not possible to develop insight while in this state, since no perceptions or feelings (along with other aggregates – khandha) accompany this attainment that can be a focus for contemplation” e che “one must first exit this state to develop insight”, malgrado i discorsi summenzionati sembrino dire che la paññā sorga non quando si emerge dalla “cessazione”, ma mentre si è in essa. Cionondimeno, anche Norman (1990: 30) avanza la possibilità che “seeing with paññā refers to something which happens after attaining this ninth state, not while one is in it”. Come che sia, poiché “distruzione degli āsava” (āsavakkhaya) è un modo per dire nibbāna, sembrerebbe da detti luoghi canonici che saññāvedayitanirodha e nibbāna coincidano, come osservato anche da Norman stesso (1997: 27). Pure Gombrich (2012: 173) nota che “alcuni passi [canonici] sembrano equiparare la cessazione dell’appercezione e della sensazione al fine ultimo”.

Ulteriore e ultima problematica che si prende in considerazione, sollevata dal nirodha, è il suo non chiaro rapporto col nibbāna. Se in determinati luoghi testuali del Suttapiṭaka[3] si riconosceva alla “cessazione” un’importante funzione soteriologica, direttamente connessa con la liberazione, nel Visuddhimagga la sua rilevanza salvifica appare ridotta sino al punto d’esser nulla (Lusthaus 2002: 126; Griffiths 1986: 27; Polak 2011: 192): “in the Visuddhimagga, this state does not possess any soteriological function, and it is merely a demonstration of a meditative mastery” (Polak 2011: 163). Né il conseguimento del nirodha è ritenuto necessario per la realizzazione del nibbāna e, dunque, della condizione di arahant (arahatta), come può desumersi con facilità dall’indicazione di Buddhaghosa secondo cui il nirodha è accessibile soltanto da parte di anāgāmi e arahant padroni dei jhāna: poiché un arahant è tale per aver già realizzato il nibbāna, per lui il nirodha è un conseguimento accessorio (Bergonzi 1980: 169, 1981: 337).

Il rapporto intercorrente tra nirodha e nibbāna non è spiegato in maniera inequivocabile nei testi pāli. Talvolta sembrano coincidere, o quantomeno essere assai simili e prossimi, come quando Buddhaghosa scrive che coloro che raggiungono il nirodha lo ottengono pensando “raggiungeremo la cessazione che è il nibbāna” (Vism XXIII, 30) oppure “essendo privi di mente (acitta) per sette giorni, ottenuta proprio in questa esistenza la cessazione, il nibbāna, dimoreremo piacevolmente” (Vism XI, 124). Talaltra sembrano differire, come quando nel Mahāparinibbāna-sutta (DN 16, PTS 2.155) Anuruddha corregge Ānanda, il quale credeva che il Buddha avesse raggiunto il nibbāna definitivo, che fosse cioè parinibbuta (vale a dire completamente estinto/liberato, senza possibilità di rinascere), mentre invece aveva raggiunto il saññāvedayitanirodha; o come quando Buddhaghosa sostiene che la mente di chi emerge dal nirodha tenda al nibbāna (Vism XXIII, 50), il che implica – come nel caso precedente e in quello seguente – che i due non siano la stessa cosa, o come quando – ancora – la nirodha-samāpatti viene classificata come asabhāva-dhamma, ossia come “dhamma senza sabhāva” (“natura propria”) (Ronkin 2005: 179). Poiché privo di sabhāva, il nirodha non può essere classificato né come “condizionato” (saṅkhata) né come “incondizionato” (asaṅkhata), né come “mondano” (lokiya) né come “sovramondano” (lokuttara) (Vism XXIII, 52), e tuttavia, “poiché si dice che è ottenuto da chi lo ottiene, si può dire che è ‘prodotto’ (nipphanna)” (Vism XXIII, 52). Di contro, il nibbāna è inteso come “non prodotto” (appabhava), in Vism XVI, 71, e come dotato di sabhāva, in quanto elemento incondizionato (asaṅkhata) e trascendente (lokuttara) rispetto alla totalità del mondo condizionato (saṅkhāraloka).

Ad accomunare ulteriormente nirodha e nibbāna è l’assenza in entrambi di sensazioni. Nel Nibbānasukha-sutta (AN 9.34, PTS 4.414) Sāriputta dice che il nibbāna è sukha, “felicità”, “gioia” o “beatitudine”, al che il venerabile Udāyī chiede che sukha possa esserci nella “estinzione” (nibbāna), se non vi sono “sensazioni” o, letteralmente, “ciò che è sperimentato/conosciuto” (vedayita). La risposta di Sāriputta è che, paradossalmente, proprio l’assenza di sentire è sukha. Dunque, il nibbāna non ha a che fare con sensazioni particolarmente intense e piacevoli, sebbene il senso comune di felicità associ questa alla sperimentazione di sensazioni piacevoli ovvero, in negativo, all’assenza di sensazioni spiacevoli; parimenti, neppure il saññāvedayitanirodha ha a che fare con le sensazioni, dal momento che, come dice il nome stesso, esso costituisce il loro arresto, insieme con tutti gli altri khandha mentali (Tan 2020: 17), il che rende impossibile la sperimentazione di ogni sorta di cosa (Tan 2020: 5).

Gombrich ha sostenuto che l’idea filosofica forse più importante del Buddha sia che

la nostra coscienza e i suoi oggetti sono simili al fuoco, in quanto non sono cose, ma processi, un cambiamento incessante; forse è possibile concepire qualcosa che ne sia al di là, ma la natura stessa dell’apparato che consente di avere esperienze determina che, se qualcosa esiste, esso si colloca di necessità completamente al di fuori della nostra esperienza.

Gombrich 2012: 171

Orbene, poiché “l’apparato che consente di avere esperienze” diviene inoperante nel nirodha, con la conseguente interruzione dell’esperienza in ogni sua possibile manifestazione psicologica, si può supporre che ciò che rimanga sia quel che esiste “al di fuori della nostra esperienza”. Così, questa, definita complessivamente dall’interrelazione di quei processi dinamici che sono i cinque khandha, con l’arresto (temporaneo) di quelli di natura mentale, che sono la stragrande maggioranza, è possibile che lasci il posto a ciò che non ricade nel campo degli aggregati, che è totalizzante per il condizionato, ma non contiene tutto ciò che esiste, in quanto il nibbāna, unico asaṅkhata, non vi rientra, pur essendo anch’esso una realtà – anzi, si potrebbe dire: la realtà per eccellenza, quella alla quale ci si desta come da un sogno.

2.7. Il nirodha è uno stato non-duale?

L’assenza nel saññāvedayitanirodha dell’esperienza, oltre ad essere stata affermata da diversi studiosi (Arbel 2004: 33; Boisvert 1995: 70; Kalupahana 1987: 25; King 1987: 142), è desumibile dal nome stesso di tale stato: infatti, il termine vedayita che vi figura potrebbe essere tradotto come “esperienza”, come ricordato all’inizio. King (1987: 77) ritiene che, mancando ogni sorta di esperienza nella “cessazione”, vi manchi per ciò stesso la distinzione tra soggetto e oggetto, e, dunque, si potrebbe azzardare questa ipotesi, quello che in filosofia si chiama principium individuationis. Se, come dice Gombrich (2012: 171), ogni esperienza richiede sia l’aspetto soggettivo che quello oggettivo, allora quella del nirodha, in cui mancano ambedue, sarebbe una non-esperienza. Col venir meno per intero dell’esperienza strutturata attorno alla dualità di soggetto e oggetto, è lecito supporre che si addivenga ad uno stato non-duale, sebbene le fonti canoniche pāli non parlino mai esplicitamente della soppressione dell’alterità tra soggetto e oggetto nella “cessazione”. Cionondimeno, è plausibile e suggestiva la supposizione di Husgafvel (2019: 319), secondo cui “in early canonical descriptions” il saññāvedayitanirodha “is the only possible candidate for a ‘non-dual’ meditative attainment”.


[1] Un esteso e complesso tentativo è stato fatto da Griffiths (1986: 31-42), ma la conclusione cui egli è pervenuto è che “the Theravāda tradition does not offer a clear answer to our problem, and the answers that it does suggest are fraught with problems” (Griffiths 1986: 41).

[2] MN 25 (PTS 1.159), MN 26 (PTS 1.174), MN 30 (PTS 1.203), MN 31 (PTS 1.208), MN 111 (PTS 3.27), MN 113 (PTS 3.44).

[3] Oltre a quelli menzionati nella nota precedente, anche AN 9.38 (PTS 4.430) e AN 9.42 (PTS 4.450).

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