
2.3. Nirodha e inibizione del processo respiratorio
Per ragioni non specificate ma facilmente immaginabili, come per es. l’impossibilità di resistere a lungo senza bere, potrebbe darsi che nel nirodha non sia possibile permanere oltre sette giorni, ma ciò vorrebbe dire, prendendo sul serio il Visuddhimagga e il Cūḷavedalla-sutta, rimanere per diversi giorni consecutivi in apnea, giacché il processo della respirazione ivi dicesi sospeso nella “cessazione”. In particolare, l’espirazione e l’inspirazione “non sono presenti nel ventre materno, in chi è immerso nell’acqua, né nelle entità prive di percezione, nei morti, in quelli che hanno raggiunto il quarto jhāna, in chi è nel divenire della forma o senza forma, in chi ha raggiunto la cessazione” (Vism VIII, 209, corsivo mio).
Sull’arresto della respirazione, del resto, sono disponibili testimonianze letterarie non soltanto in ambito buddhista, anche nella maniera dell’appāṇakajjhāna (“assorbimento senza respiro”) di cui il Buddha stesso riferisce nel Mahāsaccaka-sutta (MN 36, PTS 1.242) rievocando il proprio passato ascetico, nonché nel terzo libro del Milindapañha[1], ma altresì in ambito jaina e yogico: per quanto concerne il primo, nell’Uttarajjhayaṇa si parla di una particolare forma di concentrazione chiamata sukkajjhāṇa (“meditazione pura”), in cui il monaco si dice che ponga fine alla respirazione, ovvero all’espirazione e all’inspirazione: “he first stops the activity of his mind, then of his speech and body, then he puts a stop to breathing out and breathing in” (Bronkhorst 1993: 12); in quanto al più vasto campo yogico, si può ricordare che lo Yogasūtra (II.49) definisce il prāṇāyāma – il controllo del respiro – come l’interruzione del flusso (gativiccheda) di “inspirazione-espirazione” (śvāsa-praśvāsa), cioè, in una parola, della respirazione. Anche il testo fondativo dello haṭhayoga, la Haṭhapradīpika (XV sec.), contiene chiari riferimenti alla ritenzione del respiro (II.71-77).
Ma, tornando in ambito buddhista, l’affermazione estrema circa l’assenza del respiro in colui che abbia raggiunto il nirodha non può, evidentemente, essere accettata pacificamente e acriticamente, essendo biologicamente impossibile per un essere umano non respirare affatto per un tempo prolungato. Mentre è bensì possibile che il respiro nel corso dell’ascesa da un jhāna all’altro si faccia sempre più sottile e lento, fino a divenire impercettibile e incapace di muovere una piuma posta dinanzi al naso del praticante, è d’altra parte francamente inammissibile che il respiro a un certo punto venga a mancare del tutto, come dicesi in Vism VIII, 208. Parimenti problematica è l’astensione dal bere fino ad una settimana o più, nonché, in questo lasso di tempo, la totale mancanza di defecazione e, soprattutto, di minzione. Che a un certo punto debba prodursi l’esigenza di soddisfare siffatte necessità è desumibile dalla seguente affermazione di Buddhaghosa: “Il monaco che desidera ottenere la cessazione mangia il suo pasto” (Vism XXIII, 32). Com’è possibile resistere ai bisogni fisiologici primari, vieppiù impellenti man a mano che passano i giorni, per una settimana (o più)? Tali difficoltà permangono pur ammettendo con Westerhoff (2018: 180) che il saññāvedayitanirodha sia una sorta di “animazione sospesa”, in cui il livello di attivazione fisiologica del corpo (respirazione, metabolismo, battito cardiaco[2] etc.) sia al minimo, al punto tale da sembrare, dall’esterno, addormentati o addirittura trapassati.
2.4. Auspicabilità del nirodha
Dato il carattere estremo della nirodha-samāpatti, sia dal punto di vista fisico che psicologico, è lecito chiedersi cosa vi sia di auspicabile nel raggiungere uno stato che parrebbe una sorta di condizione vegetativa, se non del tutto anestetica, in cui assieme al dukkha viene meno, sia pure temporaneamente e reversibilmente, tutto ciò che caratterizza una persona dal punto di vista mentale, ossia, usando i termini classici dell’antropologia buddhista, gli aggregati (khandha) delle “sensazioni” (vedanā), delle “percezioni” (sañña), delle “formazioni mentali” (saṅkhāra) e della “coscienza” (viññāṇa) (Boisvert 1995: 62, 63, 69; Brahmāli 2009: 56-57; Polak 2011: 159, 161). Non meraviglia, dunque, che il soggetto ordinario tema il raggiungimento del nirodha, creduto essere una forma di inesistenza:
One reason why the attainment of cessation is not regarded by the Vaibhāṣikas as open to ordinary people, non-practitioners of the noble Buddhist path, has some philosophical interest. Vasubandhu tells us that ordinary people cannot enter the attainment of cessation because they would regard it as non-existence simpliciter and would therefore fear it.
Griffiths 1986: 59
Prima di rispondere alla questione posta, giova ripercorrere le definizioni che del nirodha sono state date dagli studiosi contemporanei. Sharf (2014: 144) ne parla come “a meditative state akin to a vegetative coma in which all consciousness has ceased”, nonché come “insentience pure and simple” (Sharf 2014: 146). Norman (1997: 27) lo ha invece inquadrato come “some sort of death-like trance”, Gombrich (2012: 173) anche come “una specie di trance”, Gokhale (2020: 24, 62) come “the highest state of meditative trance” e Keown (2010: 11) come “a state in which the subject is alive but where the body generates no vital signs”. Griffiths (1986: 11), dal canto suo, cercando di intendere il nirodha secondo i termini della psicologia clinica occidentale, parla di “some kind of profound cataleptic trance, the kind of condition manifested by some psychotic patients and by long-term coma patients”. In altri termini, si tratterebbe di una sorta di condizione letargica:
The physical condition of a practitioner in the attainment of cessation, then, is like nothing more than that of a mammal in the deepest stages of hibernation; there also the physical functions slow to an almost imperceptible minimum, and it is possible for the untrained observer to judge the creature dead rather than in hibernation.
Griffiths 1986: 10
Ancora con le parole di Griffiths:
physically, it is a condition much like that of some mammals in deep hibernation. Respiration has either ceased or is at a very low level; heart rate has dropped almost to zero; body temperature is low. Mentally, the ordinary functions of sense-perception, concept-formation, and ratiocination have completely ceased. The closest analogy in Western psychology might be to a person in a deep cataleptic trance. No reaction to stimuli is observable and no initiation of action occurs. The Buddhist depiction of the attainment of cessation perhaps goes further, in that any internal mental life (image-formation, dreaming, and the like) is ruled out. The attainment of cessation is, in brief, a condition in which no mental events of any kind occur, a condition distinguishable from death only by a certain residual warmth and vitality in the unconscious practitioner’s body.
Griffiths 1990: 80
D’altra parte, in diversa sede lo stesso Griffiths (1983: 387) puntualizza che in realtà, dalla prospettiva della psicologia occidentale, “catalepsy and coma are not thought of as though they are entirely without consciousness”, dunque l’analogia tra il nirodha e uno stato catalettico o comatoso a rigore è imperfetta, il primo essendo qualcosa di più radicale, in quanto costituisce “a complete bringing to a halt of all mental events without remainder” (Griffiths 1983: 388). L’autore propone dunque un altro paragone, che, sebbene estremo, dovrebbe essere più calzante:
The nearest analogy in Western thought would probably be the idea of brain death, that condition in which a patient is declared clinically dead but whose nervous system may be kept in operation – for a time at least – by artificial means. An extreme example of such a condition would be the case of a person who underwent a neat, surgical decapitation, and whose heartbeat and so forth were thereafter kept in operation artificially.
Griffiths 1983: 388
Ancora, Collins (1982: 229-230) ha definito il nirodha come “the most important state of unconsciousness”, King ne ha parlato come uno stato di “totale incoscienza” (King 1987: 145), di “estinzione della mente” (King 1987: 144), in cui, per usare le parole di altri studiosi, “the mind totally shuts down” (Harvey 2013: 332), in cui si verifica una “complete cessation of all mental activity” (Arbel 2004: 14). Quale mai può essere, dunque, l’auspicabilità di raggiungere siffatto stato?
Verosimilmente, il raggiungimento del nirodha è auspicabile in vista della comprensione che esso produce, a posteriori, dell’insostanzialità della coscienza e degli altri khandha mentali, della loro caratteristica di anattā, per il fatto che, in quanto prodotti condizionati, sorgono e cessano senza che permanga un residuo sostanziale. Kalupahana (1995: 30) è di quest’idea: “the realization of nonsubstantiality (anattā) of all phenomena was the outcome of the Buddha’s pursuit of the yogic contemplation to its climax, namely the attainment of the cessation of perception and what is felt (saññāvedayitanirodha)”. Sebbene soltanto lui tra gli studiosi di mia conoscenza abbia portato l’attenzione sull’interessante rapporto tra anattā e saññāvedayitanirodha, questo può a buon diritto ritenersi la massima dimostrazione del non-sé, poiché col totale cessare in esso dell’esperienza, senza alcun residuo, si realizza che dietro questa non c’è nessuno – alcun io o sé stabile e separato, alcun “conoscitore” (vedagū) (Gnoli 2001: 167) o “conoscitore del campo” (kṣetrajña) (Gnoli 2001: 1073). E questa stessa realizzazione non è il conseguimento di qualcuno.
Non solo: il nirodha, prefigurando l’arresto definitivo di tutti i khandha che si verifica dopo la morte di un arahant, è auspicabile per avere un assaggio in vita dell’anupādisesa-nibbāna (“nibbāna senza residuo”, cosiddetto in quanto manca di quel residuo che è dato dai cinque khandha); non per niente, diversi studiosi hanno visto una stretta vicinanza tra nirodha e nibbāna: si possono ricordare tra gli altri, a titolo di esempio, Gnoli (2001: xxxv), che parla dello stato di “arresto della coscienza e della sensazione” come “prefigurazione terrena del nirvāṇa”; Arbel (2004: 73), che ne parla come “analogous by nature to the state of the arahant after death”; King (1987: 25), che anche associa strettamente nirodha e nibbāna: “Tale realizzazione è definita nel canone e da Buddhaghosa come la più completa e duratura esperienza del Nibbāna accessibile agli esseri umani in questa vita”. Una fonte primaria a sostegno di tali affermazioni è una citazione contenuta in Vism XXIII, 52, in cui si parla del nirodha proprio come “nibbāna in vita”.
Esistono d’altro canto almeno due differenze tra l’anupādisesa-nibbāna e il nirodha: innanzitutto, il primo può essere raggiunto soltanto dopo la morte ed è indefettibile, mentre il secondo è un conseguimento possibile in vita e reversibile; in seconda istanza, nel nibbāna definitivo tutti i khandha si arrestano definitivamente, mentre nel nirodha ad essere sospesi sono soltanto i quattro khandha mentali, non anche i processi fisici (Boisvert 1995: 62; Bergonzi: 1980: 162), i quali sono probabilmente i fattori che consentono il ritorno ad una condizione di esistenza ordinaria. Notoriamente, il Buddha si rifiutò di rispondere alle domande sul destino post mortem di un liberato, rigettando tutte le possibilità logiche del tetralemma[3]. Ma poiché il nirodha tra gli stati conseguibili in questa stessa vita è quello che più vi si avvicina, si può sostenere che il praticante che lo consegue conosca in prima persona cosa lo attende dopo la morte, quasi con perfetta precisione, poiché a differenziare il nirodha dal nibbāna finale è, come detto or ora, la persistenza, tra i khandha, del solo rūpakkhandha, ovvero l’aggregato della forma materiale. La prefigurazione dell’estinzione ultima che il saññāvedayitanirodha invera è, proprio per questo, quasi totale e la maggiore possibile mentre si è ancora in vita.
Infine, un’altra ragione che può essere addotta in favore dell’auspicabilità del nirodha è il raggiungimento di una straordinaria condizione di invulnerabilità (Conze 1988: 110; Polak 2011: 161). Nel Vimuttimagga, non a caso, una delle risposte date al perché si sviluppa questo eccelso stato è “protecting the body” (Ehara et al. 1995: 324). Ma già nel Canone vi si fa esplicito riferimento nel Māratajjanīya-sutta, dove Moggallāna narra la storia d’un discepolo del Buddha Kakusandha, Sañjīva, il quale, immerso nel nirodha, fu preso per morto e cremato, ma egli sopravvisse alla cremazione, uscendone indenne e suscitando vivo stupore in quegli stessi che, credendolo trapassato, lo avevano consegnato al fuoco[4].
2.5. Il nirodha come stato privo di attività mentali
La definizione che del nirodha offre Buddhaghosa nel Visuddhimagga, concorde con quella data precedentemente da Upatissa nel Vimuttimagga (Ehara et al. 1995: 323), “la non manifestazione dei dhamma della mente (citta) e dei suoi fattori (cetasika) sotto forma di graduale cessazione” (Vism XXIII, 18), consente di intendere il nirodha come stato non-cognitivo, “inconscio” (Gethin 1994: 14), o “privo di mente” (acittaka), come del resto viene affermato nello stesso Visuddhimagga (XI, 124). Data la natura intenzionale della coscienza (Gombrich 2012: 171, 184; Gethin 1994: 14; Bergonzi 1980: 169), essa, allorché ogni supporto contemplativo e contenuto cognitivo venga a mancare, come avviene nel nirodha, non più si manifesta, sicché il praticante viene a trovarsi in uno stato giustappunto acittaka. Già la coscienza è assai rarefatta nel nevasaññānāsaññāyatana, tanto che il meditante in questo stato non può dirsi “né conscio né inconscio” (Talamo 1998: 414), a maggior ragione nel passo successivo e finale. L’importanza attribuita alla presenza dell’oggetto per il darsi della coscienza è sottolineata dal fatto che questa è anche definita “that which grasps the object” (ārammaṇika) (Karunadasa 2019: 70). Essa nello stato di nirodha cessa non soltanto nel suo aspetto intenzionale, come coscienza-di-qualcosa, ma puranche in quello subliminale (bhavaṅga-citta) (Griffiths 1986: 40; Harvey 1995: 164; Collins 1982: 246). Ogni funzione mentale giunge a termine nel nirodha (Griffiths 1981: 607; Waldron 2003: 78; Bomhard 2010: 375; Gombrich 2012: 173; Pemaratana 2012: 107; Hayashi 2014: 88; Tan 2020: 38; U Nāṇavaṃsa: 17, 24), senza che a questo punto sia possibile scorgere un residuo sostanziale.
[1] Qui Nāgasena dice al re Milinda che se il russare (kākacchamāna) può essere sospeso semplicemente piegando il corpo, senza specifici esercizi fisici e perfezionamento morale, mentale e in saggezza (Gnoli 2001: 187), a maggior ragione per un praticante “il cui corpo, moralità, mente e comprensione siano sviluppate [bhāvitakāya, bhāvitasīla, bhāvitacitta, bhāvitapañña] e che possieda le quattro meditazioni [catutthajjhānaṃ samāpannassa], non potrebbe il suo inspirare ed espirare essere fermato [assāsapassāsā na nirujjhissanti]?” (Falà 1982: 92, PTS 85). Ciò detto, Nāgasena ottiene l’approvazione del re (kallosi, sei intelligente, dice Milinda), anche se ad una considerazione critica questa spiegazione analogica può risultare non del tutto convincente, poiché chi non russa continua pur sempre a respirare.
[2] Benché Harvey (2013: 332) sostenga che “in this state, the heart stops”.
[3] Il tetralemma (sanscrito: catuṣkoṭi) è uno schema logico, attestato già nel Canone pāli, che articola le possibilità predicative in riferimento ad un dato argomento attraverso quattro modalità: P, ¬P, P ∧ ¬P, ¬P ∧ ¬¬P.
[4] Evidentemente, richiede una grande dose di fede, per essere accettato, il fatto che Sañjīva sia sopravvissuto alla cremazione. Non è impossibile né improbabile che la “cessazione”, in quanto ottenimento formidabile, sia stata oggetto di invenzioni irrealistiche atte a sottolinearne giustappunto l’eccezionalità.
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