Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Essere senza mente: il saññāvedayitanirodha nei Nikāya e nel Visuddhimagga (pt. 1)

Lascia un commento


Abbreviazioni
DN: Dīgha Nikāya;
MN: Majjhima Nikāya;
SN: Saṃyutta Nikāya;
AN: Aṅguttara Nikāya;
Vism: Visuddhimagga;
PTS: Pali Text Society.

1. Introduzione

Al culmine della successione di quegli stati alterati di coscienza vieppiù profondi e sottili che sono i jhāna, si trova un singolare stato noto, in lingua pāli, come saññāvedayitanirodha ovvero, in un numero nettamente minore di occorrenze, nirodha-samāpatti. Se la traduzione di quest’ultimo termine non pone particolari problemi, potendo esso essere reso semplicemente come “ottenimento della cessazione”, la resa del primo non è invece altrettanto univoca. Il composto saññāvedayitanirodha viene comunemente tradotto come “cessazione di percezioni e sensazioni”; senonché, il sostantivo femminile saññā significa “percezione”, “riconoscimento”, ma può anche essere reso come “nozione”, mentre vedayita – participio passato del verbo vedeti, che può essere tradotto sia come “conoscere” che come “sperimentare” – alla lettera possiede il significato di “ciò che è sperimentato/conosciuto” e può dunque rendersi come “esperienza”. Mettendo assieme il significato dei due termini, saññāvedayitanirodha potrebbe dunque essere tradotto in modo egualmente corretto come “cessazione di nozioni ed esperienza”. Ma le possibilità interpretative non terminano qui: infatti, Norman (1997: 27) ha osservato che, benché il composto saññāvedayita sia in genere interpretato come dvandva, ossia un composto copulativo, esso potrebbe nondimeno essere interpretato come tatpuruṣa, ossia un composto determinativo, e il participio passato vedayita adoprato come nome d’azione, cosicché il significato di saññāvedayitanirodha sarebbe “cessation of the feeling of perceptions”.

2. Lo stato di saññāvedayitanirodha

All’interno del Canone pāli – l’unico, com’è noto, ad essere sopravvissuto per intero in lingua originale -, il nirodha figura in un numero significativo di luoghi testuali, non solo come apice del progresso dei jhāna[2], ma anche come “liberazione” (vimokkha) più alta tra le otto che vengono elencate[3], nonché come l’ultima e più elevata tra le “nove dimore progressive” (nava anupubbavihāra, o anupubbavihārasamāpatti, “ottenimento delle dimore progressive”)[4], corrispondenti agli otto jhāna (aṭṭhasamāpatti, lett. “otto ottenimenti”) più il nirodha stesso.

Pur figurando in una quantità non irrilevante di passi canonici, che gli attribuiscono una importante funzione soteriologica, complessivamente il nirodha nel Canone non è stato oggetto di discussioni puntuali nello stesso grado di quelle che si trovano in due notevoli manuali composti in era volgare, il Vimuttimagga di Upatissa (II d.C.) e il Visuddhimagga di Buddhaghosa (V d.C.). Nella descrizione della modalità di accesso al nirodha, entrambi concordano sulla necessaria cooperazione delle forme di contemplazione samatha e vipassanā. Un antecedente canonico di tale posizione si trova nel Dutiyakāmabhū-sutta (SN 41.6, PTS 4.294), dove i “fattori” (dhamma) samatha e vipassanā vengono detti utili al fine di conseguire il nirodha (saññāvedayitanirodhasamāpattiyā kho, gahapati [Citta], dve dhammā bahūpakārā—samatho ca vipassanā ca).

Secondo la trattazione del Visuddhimagga, contenuta nel capitolo XXIII, soltanto una “nobile persona” (ariya-puggala) che abbia raggiunto l’elevata condizione di anāgāmi o arahant e che padroneggi tutti gli otto jhāna può aspirare al conseguimento della “cessazione”[5], dove alcuni studiosi hanno ritenuto possibile dimorare fino ad una settimana[6] (Gombrich 2012: 173; Rewata Dhamma 2020: 113) o anche più (King 1987: 145), ancorché nel Visuddhimagga Buddhaghosa non si pronunci chiaramente sulla durata massima di permanenza nel nirodha: egli parla sì di sette giorni in relazione all’ottenimento della cessazione da parte dei “nobili” (ariya) (Vism XI, 124), ma non sostiene che tale sia la sua durata massima.

La pratica volta in direzione del saññāvedayitanirodha si svolge alternando samatha e vipassanā (Vism XXIII, 43), vale a dire entrando nei jhāna e – dopo esserne emersi – contemplandone la natura condizionata (saṅkhata) rivelata dalle “tre caratteristiche universali” (tilakkhaṇa) comuni a tutto ciò che è condizionato: “impermanenza” (anicca), “carattere insoddisfacente” (dukkha) e “non-sé” (anattā). Proprio perché richiede il concorso di samatha, di origine pre-buddhista, e vipassanā, tradizionalmente ritenuta contributo originale del buddhismo (Bergonzi 1981: 339; Gombrich 2012: 173), il nirodha può essere raggiunto soltanto dai seguaci del Buddha, peraltro non esclusivamente del Buddha Gotama, poiché, come si apprende dal Māratajjanīya-sutta (MN 50, PTS 1.332), già al tempo di un Buddha del passato di nome Kakusandha un suo eminente discepolo chiamato Sañjīva era capace di entrare nel saññāvedayitanirodha.

The full development of samatha and vipassanā must therefore be seen as a necessary condition for the attainment of cessation. That is why, according to Buddhaghosa, the non-Buddhists are unable to attain saññāvedayitanirodha. They may be the masters of samatha, but they do not possess vipassanā. (Polak 2011: 160)

Come è insufficiente, al fine di raggiungere il nirodha, il solo samatha, che porta al massimo allo stadio immediatamente precedente a quello del nirodha stesso, ovvero la “sfera della né percezione né non-percezione” (nevasaññānāsaññāyatana), così pure è insufficiente la sola vipassanā, ragion per cui Buddhaghosa scrive che tra coloro che non raggiungono la “cessazione” vi sono gli “arahant che praticano solo la visione profonda”[7] (Vism XXIII, 18).

2.1. Le quattro funzioni preliminari al conseguimento del nirodha

Il praticante che ha in animo di conseguire la “cessazione” consuma il suo pasto, si lava mani e piedi, si siede a gambe incrociate su un seggio in un luogo isolato e, stabilita la consapevolezza innanzi a sé, comincia la sua ascesa lungo i jhāna, all’uscire dai quali per ciascuno ne contempla le formazioni come impermanenti, insoddisfacenti e non-sé (Vism XXIII, 32). Giunto ed emerso dal jhāna detto “sfera della non-qualcosità” (ākiñcaññāyatana)[8], il monaco ha da compiere quattro doveri preliminari al conseguimento del nirodha (Vism XXIII, 34-42):

  1. nānābaddha avikopana: l’adepto si sincera che durante la sua permanenza nel nirodha gli oggetti appartenenti ai suoi confratelli non subiscano nocumento o vengano rubati; quanto ai propri, come le vesti e il sedile su cui si siede, non è necessario formulare un apposito impegno, poiché essi sono (misteriosamente) protetti dallo stesso ottenimento meditativo (Vism XXIII, 37);
  2. saṅgha paṭimānana: l’adepto dev’essere pronto ad uscire dallo stato di cessazione, prima ancora che qualcuno venga a chiamarlo, qualora la comunità (saṅgha) intenda fare qualcosa che richiede la sua presenza (Vism XXIII, 38);
  3. satthupakkosana: l’adepto – di nuovo – dev’essere pronto ad abbandonare la cessazione, prima ancora che qualcuno lo chiami, qualora il suo maestro intenda fornire un insegnamento di Dhamma (Vism XXIII, 40);
  4. addhānapariccheda: è il dovere preliminare di maggiore rilevanza (“è detto che si possono anche trascurare le altre tre funzioni, ma su questa è necessario focalizzarsi”, Vism XXIII, 42), consistente nel fare in modo di non perire durante la cessazione.

Compiuti siffatti doveri preliminari, senza i quali dal nevasaññānāsaññāyatana si retrocederebbe alla immediatamente precedente “sfera del non-qualcosa” (ākiñcaññāyatana) (Vism XXIII, 44, 46), il meditante può procedere verso il nevasaññānāsaññāyatana senza timore di regredire: a questo punto, il suo pensiero si arresta ed egli raggiunge la “cessazione” (Vism XXIII, 43).

2.2. Nirodha e morte

Al raggiungimento del saññāvedayitanirodha, il soggetto si trova in uno stato psico-fisico appena distinguibile dalla morte (Solé-Leris 1988: 92-93): infatti, in questa particolare condizione viene meno la capacità di percepire e rispondere agli stimoli esterni, come si capisce dalla storia raccontata da Buddhaghosa sull’anziano monaco Mahānāga che, immerso nel nirodha, non si accorse minimamente dell’incendio che era scoppiato nella sala in cui si trovava (Vism XXIII, 36).

Esteriormente è difficile distinguere lo yogin nel nirodha da un defunto, pur essendoci delle differenze[9] che Sāriputta spiega a Mahākoṭṭhita in questi termini nel Mahāvedalla-sutta (MN 43, PTS 1.295), ma le medesime sono riportate anche nel Dutiyakāmabhū-sutta (PTS 4.293) e, successivamente, nel Vimuttimagga (Ehara et al. 1995: 325) e nel Visuddhimagga (XXIII, 51): quando qualcuno muore, i suoi kāyasaṅkhāra, vacīsaṅkhāra e cittasaṅkhāra – rispettivamente, coefficienti corporei, verbali e mentali – sono cessati (niruddha) e si sono placati (paṭippassaddha), la forza vitale (āyu) si è consumata (parikkhīṇa), il calore (usmā) è svanito (vūpasanta), le facoltà sensoriali (indriya) sono distrutte (paribhinna); di contro, in chi ha raggiunto il saññāvedayitanirodha, sebbene anche in lui i saṅkhāra siano in stato di arresto e quiete, l’āyu non è consumato, l’usmā non è svanita e gli indriya sono chiarissimi (indriyāni vippasannāni). Prima di tale spiegazione, era stata posta una domanda interessante: cosa deve mancare in un corpo (kāya) perché esso venga abbandonato (ujjhita), lasciato cadere (avakkhitta) come un legno inanimato (kaṭṭhaṃ acetanan)? La risposta menziona tre elementi: forza vitale (āyu), calore (usmā) e coscienza (viññāṇa)[10]. Poiché quest’ultima, come sarà chiarito meglio in seguito, è assente nel nirodha, mancando un elemento su tre di quelli che rendono un corpo senziente, segue che nello stato di saññāvedayitanirodha il corpo (kāya) sia almeno parzialmente privo di sensibilità.

Dal Cūḷavedalla-sutta (MN 44, PTS 1.300) si apprende quali siano, in particolare, i saṅkhāra coinvolti nell’arresto temporaneo causato dall’ingresso nel nirodha: i kāyasaṅkhāra, vacīsaṅkhāra e cittasaṅkhāra sono, rispettivamente, inspirazione-espirazione (assāsapassāsā), pensiero applicato-pensiero sostenuto (vitakkavicārā), percezione (saññā) e sensazione (vedanā). Inoltre, dal medesimo discorso si viene a sapere che l’ordine di cessazione dei “coefficienti” è differente (PTS 1.301): qui difatti si afferma che nel bhikkhu che sta raggiungendo il nirodha cessino prima i “coefficienti verbali” (vacīsaṅkhāra), poi quelli “corporei” (kāyasaṅkhāra), infine quelli “mentali” (cittasaṅkhāra). Nello stesso sutta si dice, inoltre, che il pensiero non c’è né quando si sta per raggiungere il nirodha, né quando lo si è raggiunto, né quando si emerge da esso[11]. Nel Nirodhasamāpatti-sutta (SN 28.9, PTS 3.237) si specifica che tali pensieri non sorgono a causa dell’eradicazione dell’ahaṅkāramamaṅkāramānānusaya, ovverosia la “fabbricazione dell’io e del mio e la tendenza latente alla presunzione”.

Quando si emerge dal nirodha, i saṅkhāra si rimanifestano a partire dagli ultimi a essersi interrotti, quindi, secondo la sequenza a ritroso del Mahāvedalla-sutta, prima tornano a manifestarsi i coefficienti mentali, poi quelli verbali, finalmente quelli corporei. Peraltro, l’ordine di riapparizione dei saṅkhāra presente nel Cūḷavedalla-sutta (PTS 1.301), dove la sequenza della loro cessazione si è poc’anzi visto essere diversa, è in parte differente, Dhammadinnā sostenendo che a ripresentarsi siano dapprima, sì, i coefficienti mentali, ma seguiti da quelli corporei e infine da quelli verbali.  Significativamente, nel Dutiyakāmabhū-sutta (PTS 4.294), come pure nello stesso Cūḷavedalla-sutta (PTS 1.301), si sostiene che all’emersione dal saññāvedayitanirodha il bhikkhu sperimenti tre tipi di contatto (suññataphassa, animittaphassa, appaṇihitaphassa) che Buddhaghosa, nel suo “commentario” (aṭṭhakathā) al Saṃyuttanikāya, intitolato Sāratthappakāsinī, “unambiguously associates […] with the attainment of fruition (phalasamāpatti)” (Miracapillo 2009: 11), che ha per “oggetto” (ārammaṇa) il nibbāna – il che stabilisce una certa vicinanza tra nirodha e nibbāna, che sarà meglio discussa in seguito.

Per quanto concerne la “vitalità” e il “calore corporeo”, rispettivamente āyu e usmā, essi indicano le funzioni fisiche elementari che sono le sole a rimanere attive nel nirodha. Come viene detto nel Mahāvedalla-sutta (PTS 1.295), āyu e usmā si trovano tra loro in un rapporto di reciproca dipendenza, com’è per la luce e la fiamma di una lampada a olio, per cui la luce si vede a causa della fiamma e la fiamma a causa della luce. Proprio āyu e usmā permettono, presumibilmente, di emergere dal nirodha, sia pure secondo un processo non specificabile, perché non indagato partitamente nei testi canonici della tradizione theravāda. Nel tentativo di intendere i processi corporei āyu e usmā in termini moderni, Keown (2019: 6) ha sostenuto che “vitality (āyu) seems to correspond to the metabolic processes that take place in the body, and heat (usmā) to the energy these processes liberate”. Anche Harvey (2013: 332) parla di “a residual metabolism” che mantiene il corpo in vita durante il nirodha, sostenendo inoltre che “a person in this state is seen as only a body, with no mental states whatever” (Harvey 1993). Da par sua, Griffiths (1990: 79) ha inteso āyu e usmā come “the autonomic processes of the central nervous system”.

Infine, resta da chiarire il senso della straordinaria lucentezza e quiete delle facoltà sensoriali nello stato di saññāvedayitanirodha: ciò è dovuto al fatto che esse in tale ottenimento non sono perturbate e sporcate dal contatto con i rispettivi oggetti, l’attività sensoriale essendo sospesa per tutta la durata del nirodha (Lang 2012: 151): i sensi possono così mantenersi in uno stato di chiarezza e integrità, riposando in se stessi senza disperdersi o “frantumarsi” negli oggetti e, come si dice nel commentario al Majjhimanikāya (II 351, 29-30), risplendendo come uno specchio riposto in una custodia.


[1] La prima parte del titolo è ispirata a quella della monografia di Griffiths (1986). Desidero ringraziare sentitamente Chiara Neri per la sua attenta lettura del presente contributo e per i suggerimenti atti a migliorarlo, nonché Bruno Lo Turco, le cui lezioni hanno avuto effetti importanti sulla mia formazione accademica, buddhologica in specie.

[2] Ad esempio: DN 16 (PTS 2.155), MN 25 (PTS 1.159), MN 26 (PTS 1.174), MN 66 (PTS 1.455), MN 111 (PTS 3.27), MN 113 (PTS 3.43), SN 6.15 (PTS 1.157), SN 16.9 (PTS 2.211), SN 28.1-28.9, SN 36.19 (PTS 4.227), SN 54.8 (PTS 5.318).

[3] DN 15 (PTS 2.70), DN 16 (PTS 2.111), DN 33 (PTS 3.261), MN 77 (PTS 2.12), AN 8.66 (PTS 4.306). Come “liberazione” il saññāvedayitanirodha compare altresì all’interno di una lunga lista di vimokkha nella Vimokkhakathā del Paṭisambhidāmagga (PTS 2.34), dove figura come saññāvedayitanirodhasamāpattivimokkho, “liberazione dell’ottenimento della cessazione di percezioni e sensazioni”.

[4] AN 9.33 (PTS 4.413), AN 9.41 (PTS 4.446).

[5] Questa interpretazione, che restringe ai soli due livelli di risveglio più alti, corredati dal conseguimento degli otto jhāna, la possibilità di accedere al nirodha, non sembra avere un fondamento altrettanto chiaro ed esplicito nel Canone: essa è stata dedotta da Buddhaghosa a partire da un passo del Paṭisambhidāmagga (I 97). Sujin Boriharnwanaket (2012: 376) giustifica l’esclusione del sotāpanna e del sakadāgāmī dal novero di coloro che possono raggiungere il nirodha così: “The sotāpanna and the sakadāgāmī, even if they have attained the highest stage of arūpa-jhāna, do not have the same degree of paññā as the anāgāmī and the arahat; thus, in their case paññā is not powerful enough to be able to condition cessation”.

[6] Dal commentario al Suttanipāta, intitolato Paramatthajotikā (II) e tradizionalmente ascritto a Buddhaghosa, apprendiamo che, sul pendio Nandamūlaka, un paccekabuddha – di cui viene taciuto il nome – emerse dal nirodha (nirodhā vuṭṭhāya) proprio il settimo giorno di raccoglimento (Bodhi 2017: 436, 1380). Sujin Boriharnwanaket (2012: 376) motiva la durata massima di sette giorni nel modo seguente: “food that has been taken cannot support the body longer than seven days”.

[7] Tutte le citazioni in traduzione italiana dal Visuddhimagga sono opera di Antonella Serena Comba (2010).

[8] Con Bruno Lo Turco (2018: 22), ma prima ancora col Dahlke, che ha coniato il termine tedesco Nichtetwasheit (Solé-Leris 1988: 212), ritengo opportuno tradurre ākiñcaññāyatana come “sfera della non-qualcosità/del non-qualcosa”, anziché servirmi della diffusa traduzione “sfera del nulla”, per evitare fraintendimenti nichilistici, dato che in questo stato contemplativo è errato ritenere che non vi sia assolutamente nulla: sono presenti i fattori jhānici (jhānaṅga) della “concentrazione universa” (ekaggatā) e della “equanimità” (upekkhā), presenti, del resto, in tutti gli arūpajjhāna; il “nulla” dell’ākiñcaññāyatana è in realtà relativo, in quanto fa riferimento all’assenza attuale di qualcosa, in particolare della coscienza del primo jhāna senza forma (Bodhi 2007: 54); non si tratta, dunque, di una totale assenza, dell’assenza di tutto. L’Anupada-sutta (MN 111, PTS 3.26) menziona i seguenti dhamma, oltre ai due suddetti: percezione della dimensione del non-qualcosa (ākiñcaññāyatanasaññā), contatto (phassa), sensazione (vedanā), percezione (saññā), volizione (cetanā), mente (citta), interesse (chanda), risoluzione (adhimokkha), energia (vīriya), consapevolezza (sati), attenzione (manasikāra).

[9] Se si è avvertita l’esigenza di diversificare questi due stati, evidentemente è perché prima di tutto se ne è riconosciuta in certa misura l’affinità, e difatti si dà somiglianza tra essi, in entrambi i “coefficienti” (saṅkhāra) essendo cessati e placati.

[10] Questi tre dhamma in riferimento al corpo vengono menzionati anche nei versi finali del Pheṇapiṇḍūpama-sutta (SN 22.95, PTS 3.142), dove si dice che colui dalla vasta saggezza (bhūripañña) ha insegnato che, quando quegli elementi abbandonino il corpo, esso giace gettato via (apaviddha) come cibo per altri (parabhatta) e, usando lo stesso termine, acetana, inanimato, insensibile, mindless.

[11] In particolare, vengono riportati i seguenti pensieri: “entrerò nel saññāvedayitanirodha” (ahaṃ saññāvedayitanirodhaṃ samāpajjissan), “sto entrando nel saññāvedayitanirodha (ahaṃ saññāvedayitanirodhaṃ samāpajjāmī), “sono entrato nel saññāvedayitanirodha” (ahaṃ saññāvedayitanirodhaṃ samāpanno); “emergerò dalla saññāvedayitanirodhasamāpatti” (ahaṃ saññāvedayitanirodhasamāpattiyā vuṭṭhahissan), “sto emergendo dalla saññāvedayitanirodhasamāpatti” (ahaṃ saññāvedayitanirodhasamāpattiyā vuṭṭhahāmī), “sono emerso dalla saññāvedayitanirodhasamāpatti” (ahaṃ saññāvedayitanirodhasamāpattiyā vuṭṭhito).

Lascia un commento