Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

LIBERTÀ UMANA, POTERE POLITICO: LEGAMI E CONVERGENZE TRA ÉTIENNE DE LA BOÉTIE E LA POSTERITÀ 

1 Commento

Abstract

This essay aims to relate the thought of the philosopher Étienne de La Boétie to that of other libertarians and intellectuals and to reflect on the concept of freedom and the nature of power. The fundamental assumption of this essay is that freedom is a continuous conquest because it can be threatened at any time. All of us are corruptible and exposed to the risk of doing harm. There’s only one way to combat the onset of evil and preserve our freedom: never stop thinking. Thought and judgment are the only antidotes to wickedness.

Sommario

  1. Introduzione; 2. Convergenze tra Shakespeare, La Boétie e Arendt; 3. Il fascino della schiavitù; 4. Dalla diagnosi alla prognosi.

Parole chiave: libertà, verità, pensiero, schiavitù, potere, male.

Mai sinora nella storia un regime di schiavitù è caduto sotto i colpi degli schiavi. La verità è che, secondo una formula celebre, la schiavitù avvilisce l’uomo fino al punto di farsi amare dall’uomo stesso; che la libertà è preziosa solo agli occhi di coloro che la possiedono effettivamente; e che un regime del tutto inumano, com’è il nostro, lungi dal forgiare esseri capaci di edificare una società umana, modella a sua immagine tutti coloro che gli sono sottomessi, tanto gli oppressi quanto gli oppressori. (Simone Weil, Riflessioni)

Introduzione

C’è una cellula di Étienne de La Boétie in ogni libertario: nel Bakunin di Stato e anarchia, in Simone Weil, negli autori delle più celebri distopie del Novecento – Huxley e Orwell –, in Hannah Arendt… L’influenza che La Boétie ha esercitato su intere generazioni di intellettuali – e di semplici anticonformisti “irregolari” in cerca di libertà – è notevolissima e il presente saggio si propone con estrema umiltà di rendere omaggio al suo antiautoritarismo, cercando nella letteratura e nel pensiero libertario alcune tracce del suo capolavoro, il Discorso della servitù volontaria, il più illuminante e prezioso testamento che La Boétie potesse lasciare al nostro enigmatico genere umano.

Nato nel 1530 a Sarlat, in Aquitania, Étienne de La Boétie fu giurista nell’incendiaria epoca delle guerre di religione e amico di Michel de Montaigne, il quale dedicò a La Boétie il capitolo XXVIII dei suoi Saggi – intitolato Dell’amicizia. Montaigne capì che il suo amico fraterno avrebbe trasceso i secoli, al punto da scrivere: «non conosco nessuno che possa stargli a confronto» (Michel de Montaigne, 2014, p.170). Questa fascinazione di uno dei pensatori più celebri è dovuta principalmente al messaggio di verità contenuto nel Discorso. Questo breve e sulfureo libello nacque da un proposito ben preciso: dallo sforzo di dare un nome a un vizio così innominabile da restare troppe volte innominato. In effetti, il giovane giurista percepì qualcosa di oscuro, di torbido e di paurosamente ambiguo nell’antico legame tra comando e obbedienza. La Boétie è angustiato fin dall’inizio da domande opprimenti: 

Vorrei soltanto capire come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città, tante nazioni, a volte sopportino un solo tiranno, che non ha altra potenza se non quella che essi gli concedono; che non ha potere di nuocere, se non in quanto essi hanno la volontà di sopportarlo; che non saprebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo anziché contrastarlo. Si tratta di una cosa enorme (…): vedere un milione di uomini servire in modo miserabile, il collo sotto il giogo, non costretti da una forza superiore, ma in qualche modo (così sembra) incantati e affascinati dal solo nome d’uno. (La Boétie, 2014, p.30)

Qual è l’arcano indicibile che spinge milioni di individui ad alienare la loro essenza e ad incatenarsi mani, piedi e cervello all’arbitrio di un solo uomo? Per quale ragione frotte di esseri intrinsecamente senzienti e cogitanti vengono attratti dal “fascino del nome d’Uno”? La risposta del filosofo francese è al contempo semplice e desolante: Gli uomini non desiderano per forza la libertà, ma possono, al contrario, provare una libido serviendi, una masochistica brama per la servitù: 

Sono i popoli che si lasciano o, piuttosto, si fanno maltrattare, dal momento che, smettendo di servire, sarebbero liberi; è il popolo che si fa servo, che si taglia da solo la gola, che avendo la scelta tra essere servo o essere libero rinuncia all’indipendenza e prende il giogo: che acconsente al proprio male o piuttosto lo persegue. (…) cosa può mai avere l’uomo di più caro del riottenere i suoi diritti naturali, tornando, per così dire, da bestia a essere umano? Ma non pretendo da lui tanto coraggio, gli concedo di preferire la vaga sicurezza di una vita miserabile alla dubbiosa speranza di vivere felice. (La Boétie, 2014, p.34)

Nella dinamica della sottomissione non ci sono solo delle costrizioni esterne. Il dittatore non fa unicamente affidamento sulle armi. L’imponente palazzo di menzogne e crudeltà non si regge soltanto sulle spalle di uno spudorato sterminatore di anime. 

Chi pensa che le alabarde, le guardie e le torri di sorveglianza proteggano i tiranni, a mio avviso si sbaglia di grosso; se ne avvalgono, credo, più come cerimoniale e spauracchio che per la fiducia che vi ripongono. (…) Non sono dunque gli squadroni di cavalieri, non sono le schiere di fanti, non sono le armi a difendere il tiranno (…): sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno, quattro o cinque che gli tengono l’intero paese in servitù. (La Boétie, 2014, pp.59-60)

La perpetuazione della tirannide è garantita da una masnada di ministri, quattro o cinque giannizzeri che comandano a loro volta altri iloti, innescando una catena infernale di sudditanza e oppressione. Oppressione e sudditanza che prosperano sulla seducente e terribile facilità di servire, sulla corruttibilità della natura umana, sull’assuefazione alla schiavitù.

Convergenze tra Shakespeare, La Boétie e Arendt

Nel solco tracciato da La Boétie si inserisce una poesia. Nella vasta produzione letteraria di uno dei più grandi autori di tutti i tempi, Master William Shakespeare, c’è un sonetto, il 94, in cui il Bardo d’Inghilterra spiega in poche righe il funzionamento del sistema potere: 

Coloro che hanno il potere di far male, e non lo fanno,

Non fanno la cosa che più mostrano [di poter fare],

Che, muovendo gli altri [ad agire], sono essi stessi come pietra,

Immoti [impassibili], freddi, e lenti alla tentazione:

Coloro giustamente ereditano le grazie del cielo

E amministrano la ricchezza della natura senza spreco,

Coloro sono i Signori e padroni dei loro volti, 

Gli altri soltanto ministri della loro eccellenza.

Il fiore dell’estate è dolce all’estate,

Benché per sé soltanto viva e muoia,

Ma se quel fiore incontra vile contagio,

L’erbaccia più vile ne soverchia in splendore la dignità:

Poiché le cose più dolci divengono infette per le loro azioni,

I gigli in putrefazione puzzano ben peggio delle erbacce.

Il sonetto necessita di un’indagine disvelatrice. A tal proposito, mi avvalgo della puntuale esegesi di uno dei più illustri critici letterari italiani di Shakespeare, Giorgio Melchiori, autore del saggio L’uomo e il potere, in cui propone l’analisi dettagliata di cinque sonetti shakespeariani (20, 94, 121, 129, 146), rivelando per ognuno un profondo contenuto etico-sociale. 

Ci focalizziamo sul 94, «unico sonetto politico di Shakespeare» (Melchiori, 1973, p.43), quattordici versi ermetici che tratteggiano con impetuosa eloquenza e con lapidaria incisività i potenti e il loro comportamento verso il mondo (nel significato più ampio del termine). Il grande drammaturgo delinea la personalità di due attori cardine della grande tragicommedia umana: il potente e il suddito. Entrambi gestiscono e perpetuano, in modi differenti, la macchina potere, che – è bene ribardirlo – non è detenuta soltanto da «coloro che hanno il potere di far male», ma anche da chi rende questo male effettivo. L’uomo al vertice non è attivamente coinvolto nell’esercizio del potere, evita di manifestarsi per ciò che è, limitandosi semplicemente a delegare l’esecuzione del suo progetto politico ad altri, ai suoi ministri. Non c’è nulla di probo nell’azione “delegante” del potente, come vorrebbe dimostrare una concezione cavalleresca del tiranno benefattore e paterno. «Coloro che hanno il potere» non mettono alla prova le loro «grazie», le qualità che si addicono al sovrano attraverso l’azione; al contrario, essi le ereditano «giustamente», ovvero secondo le regole. Ciò vuol dire che il sovrano ha quelle determinate qualità non per il fatto che è di per sé virtuoso, ma perché le ha formalmente acquisite assieme al titolo di re. I potenti, «signori e padroni dei loro volti» tutt’altro che valorosi, restando nell’oscurità più impenetrabile, non fanno altro che affidare l’amministrazione delle «ricchezze della natura» ai loro sgherri, che non si oppongono, si lasciano manipolare, remissivi, indifferenti e per questo conniventi. Nell’economia della poesia particolare peso ha il contrasto tra ottava e sestina. Cambiano i soggetti, ma la trama è la stessa. Il mondo della Natura – il giardino (fiori, erbacce, gigli) evocato nei versi conclusivi – ha la funzione di riprodurre esattamente il mondo degli Uomini – lo Stato (“Coloro”, “gli Altri”) rappresentato nelle prime strofe. A questo punto, l’analisi di Melchiori è illuminante nel carpire i sensi metaforici dei vari elementi naturali della sestina: «il fiore dell’estate è dolce», ovvero socialmente utile grazie al suo profumo, ma può essere facilmente contagiato dall’«erbaccia più vile» che «ne sovrasta in splendore la dignità», segno di una bellezza apparentemente superiore, di un rango sociale elevato; stessa sorte hanno «le cose più dolci», vulnerabili e facilmente corruttibili a causa delle loro azioni; per non parlare infine dei «gigli in putrefazione» che, essendosi corrotti, «puzzano ben peggio delle erbacce.» Shakespeare non fa che rivelare la natura abietta e ipocrita di quel male «che assume i tratti della grazia» (Macbeth, IV. III.) ma che nasconde dietro a una faccia serena e imperturbabile un animo vile, infettato da quel subdolo verme chiamato potere. 

Oltre a ribadire i due principali leitmotiv dell’opera shakespeariana, il contrasto tra essere e apparire e la brama di potere, il sonetto 94 pone in risalto – a mio parere – una scottante questione morale: è più turpe il corruttore o il corrotto, il mandante o il mandatario? Rispondere tout court a questa domanda dall’aspetto aporetico appare velleitario. Infatti, questo argomento apre a scenari ben più vasti che richiederebbero una trattazione a parte, ma mi sembra doveroso un richiamo al dibattito giuridico-morale che è sorto durante i processi contro i criminali nazisti e che è stato oggetto di particolare interesse per Hannah Arendt. In un saggio dedicato al processo di Francoforte – Auschwitz sotto processo – fa emergere l’assoluta arbitrarietà e la totale mancanza di giudizio delle guardie naziste, ovvero di coloro che non solo eseguirono gli ordini imposti dai burocrati – i “colletti bianchi” – ma commisero anche crimini estremamente disumani:

Nessuno diede ordine di gettare per aria i bambini per farne altrettanti bersagli, o di darli vivi in pasto alle fiamme, o di spiaccicare le loro teste contro un muro. Nessuno diede ordine di calpestare fino alla morte la gente, o di farne l’oggetto di “sport” omicidi, come quello che consisteva nell’uccidere con una sola manata (…). Circondate sempre da gente destinata a sparire nel giro di poco, le SS potevano davvero permettersi di tutto con queste persone. Non sono ovviamente loro “i maggiori criminali di guerra”, per usare l’espressione con cui sono stati definiti gli imputati di Norimberga. Stiamo parlando qui di individui che furono solo i parassiti dei “grandi” criminali. Ma quando li si guarda in faccia vien da chiedersi comunque se costoro non fossero persino peggiori di coloro che essi accusano di aver causato tutto. (Arendt, 2010, pp. 210, 215)

Stiamo parlando di meccanismi funzionali a un intero sistema in cui l’atto non criminale costituiva l’eccezionalità e l’atto bestiale l’ordinarietà. Perfino nel caso di un regime integralmente burocratico, secondo Arendt non dovremmo parlare di pura e semplice obbedienza ai superiori, ma di sostegno all’autorità. «Il leader stesso non è mai più di un primus inter pares, un primo tra pari. Coloro che sembrano solo obbedirgli, in effetti lo sostengono…, e senza questa “obbedienza” egli non potrebbe fare alcunché, resterebbe impotente» (Arendt, 2010, p.39). È fondamentale sottolineare che gli ingranaggi di quella macchina annientatrice avrebbero potuto respingere l’orrido comando degli alti funzionari nazisti in nome di quella coscienza umana che non sarebbe riuscita a sopportare il fardello troppo opprimente dell’assassinio; hanno invece scelto di servire il potere; accettando di commettere atti efferati, hanno rinnegato la loro libertà, e con essa la loro umanità. Coloro che d’altronde applicarono un minimo di giudizio e raziocinio – i cosiddetti “irresponsabili” – scelsero la difficile via del dissenso pur di preservare la loro dignità: 

[I non-partecipanti] si chiesero fino a che punto avrebbero potuto vivere in pace con la propria coscienza se avessero commesso certi atti; e decisero che era meglio non far nulla, non perché il mondo sarebbe così cambiato per il meglio, ma perché questo era l’unico modo in cui avrebbero potuto continuare a vivere con sé stessi. Ciò spiega perché alcuni di loro scelsero infine la morte, quando furono obbligati a partecipare in qualche modo agli atti del regime. Per dirla in modo crudele, ciascuno di loro rifiutò l’omicidio: non perché volesse continuare a obbedire al comandamento “non uccidere”, ma perché non voleva passare il resto dei suoi giorni con un assassino – se stesso. (Arendt, 2010, p.37)

Il nazismo nacque e si sviluppò proprio grazie alla crisi delle facoltà intellettive e della capacità di giudizio di gente ordinaria, determinata soprattutto dalla precarietà delle condizioni socio-economiche – in una Germania nettamente prostrata dalla sconfitta militare e da tutto ciò che ne è conseguito in termini finanziari. Infatti, come scrisse Simone Weil nel 1934 , «è molto ingiusto dire che il fascismo annienta il pensiero libero; in realtà è l’assenza di pensiero libero che rende possibile l’imposizione con la forza di dottrine ufficiali del tutto sprovviste di significato» (Weil, 1983, p.123). L’irragionevolezza, la disumanità, la brutalità ascendono al potere soltanto quando conquistano milioni di esseri umani vittime di fame e incultura, carichi di livore, insoddisfatti e per questo bramosi di serenità e “stabilità”. Tuttavia, è bene tener presente che «non si può avere nulla per nulla. La felicità bisogna pagarla» (Huxley, 2020, p.186), in cambio di beni inestimabili, ma tanto facili da perdere: verità, intelligenza e libertà.

Il fascino della schiavitù

«Hitler, nella sua mente priva di gioia, […] sa che gli uomini non vogliono solo agio, sicurezza, poche ore di lavoro, buon senso; loro vogliono anche, quantomeno a intermittenza, conflitto e sacrificio di sé, per non dire tamburi, bandiere e parate della fedeltà.» (Orwell, 2022, p.186) Così scriveva George Orwell nella sua recensione al Mein Kampf di Adolf Hitler, mettendo in evidenza la volontarietà insita nell’atto di subordinazione. La violenza istituzionalizzata non può spiegare tutto. Anche il moderno soft power non potrebbe essere così pervasivo, se l’uomo fosse di per sé incorruttibile, se egli fosse fermamente convinto che la felicità hic et nunc è una mera illusione e che tutte le promesse fatte dai sedicenti “amici del popolo” sono semplici imposture. L’uomo non solo è suggestionabile, ma pretende anche di essere felice a ogni costo. È forse questa pretesa di assoluta felicità che consente al demagogo di irretire la sua coscienza attraverso un’intensa opera di propaganda fatta di parate e scandita da ideali “duri e puri”. Il piacere di sentirsi soddisfatti e appagati dalle chimere offerte dall’imbonitore di turno sembra che sovrasti il desiderio di agire in conformità con i propri pensieri. Scrive La Boétie: 

La plebe, che nelle città è sempre la maggioranza, è per natura sospettosa nei riguardi di chi l’ama e ingenua verso chi la inganna. Non pensiate esista uccello che si faccia prendere più facilmente in trappola, o pesce che per ingordigia dell’esca abbocchi più in fretta all’amo, di quanto tutti i popoli si facciano rapidamente sedurre dalla servitù, appena ne avvertano il profumo sotto il naso; ed è straordinario vedere come si lascino andare tanto in fretta, non appena li si adeschi. I teatri, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, le bestie esotiche, le medaglie, i dipinti e altre droghe di questo genere rappresentavano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia. Erano questi i mezzi, le pratiche, le lusinghe che gli antichi tiranni avevano a disposizione per addormentare i loro sudditi sotto il giogo. Così i popoli instupiditi, trovando belli questi passatempi, divertendosi con il vano piacere che gli balenava davanti agli occhi, si abituavano a servire in modo altrettanto sciocco, se non peggiore, dei bambini, che imparano a leggere guardando le figure luccicanti dei libri miniati. (La Boétie, 2014, p.53)

Riprendendo le parole del Grande inquisitore, personaggio centrale dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij – «nessuna scienza darà loro il pane [agli uomini], finché rimarranno liberi; ma finirà che deporranno la loro libertà ai nostri piedi e ci diranno: “Fateci vostri schiavi, ma sfamateci”.» (Dostoevskij, 2003, p.274) Gli esseri umani preferiscono avere qualcuno che dica loro come comportarsi, che li sfami e li curi, che li rimproveri per bene quando trasgrediscono le regole, ma che li faccia sentire sempre al loro agio e li rassicuri quando le cose non vanno per il verso giusto. Essere liberi comporta invece molta più fatica… Libertà è una prova di forza tra sé stessi e il mondo; significa responsabilità, autonomia di pensiero e giudizio, indipendenza dalle altre individualità. Non c’è in questa terra desolata nessun altro bene che possa eguagliare il suo valore e la sua durata, che possa garantire la stessa pienezza vitale che assicura il suo possesso.  Eppure, «la libertà è la sola cosa che gli uomini non desiderano affatto, o almeno così sembra, per la semplice ragione che se la desiderassero l’avrebbero; come se rifiutassero questo bel guadagno, soltanto perché troppo facile da ottenere.» (La Boétie, 2014, p.35) Questa congenita insofferenza alla libertà appare dunque la prima causa di tutte le sofferenze che l’umanità ha patito nella sua storia e che, forse, continuerà a patire fino alla sua definitiva estinzione.

Dalla diagnosi alla prognosi

Lo svelamento di quest’arcano scandaloso non deve però farci perdere di vista l’efferatezza di chi si approfitta delle debolezze umane per accrescere il proprio potere; la tremenda malvagità di chi ricorre alla propaganda irrazionale per recludere gli uomini a uno stato di Unmündigkeit, di immaturità tipico dei bambini. Non dobbiamo dimenticarci di quel male parassitario che infetta la natura benigna al punto da convertirla in maligna (vedi il sonetto 94). D’altro canto, c’è una mente che è in grado di vagliare ciò che recepisce dall’esterno. La mente umana non è acrtica. L’uomo è naturalmente razionale e, per riprendere La Boétie, non è soltanto in possesso della sua autonomia, «ma anche della propensione a difenderla» (La Boétie, 2014, p.39). Bisogna capire ora se e come questa «propensione» possa soverchiare l’istinto alla servitù, o per privare il tiranno del suo potere o per scongiurare un suo avvento. Cosa può dunque contrastare la pervasività dell’inganno e della menzogna sistematica? Quali armi ha l’uomo per combattere spiritualmente contro un sedicente dio? C’è un modo per ridurre – non dico cancellare – la suggestionabilità umana, ed è quello più naturale: riconoscersi l’un l’altro come fratelli tutti unici: 

Se questa buona madre [la natura] ha dunque regalato a noi tutti la terra intera per dimora, se ci ha tutti plasmati della stessa materia, affinché ciascuno potesse rimirarsi e quasi riconoscersi nell’altro; se ha fatto a noi tutti questo gran dono della voce e della parola per familiarizzare e meglio fraternizzare, producendo attraverso la dichiarazione comune e reciproca dei nostri pensieri, una comunione della nostra volontà; (…); se ha mostrato in ogni cosa che non voleva tanto farci tutti uniti, ma tutti unici [tous uns], allora non vi è dubbio che noi siamo tutti naturalmente liberi, perché siamo tutti compagni; e a nessuno può saltare in mente che la natura abbia posto qualcuno in servitù, avendoci posti tutti in compagnia (La Boétie, 2014, p.38)

Questa agnizione può avvenire mediante una comunicazione interpersonale corretta e sincera, che può dar libero sfogo all’energia della parola; attraverso «i libri e il sapere, che più di ogni altra cosa, danno agli uomini il sentimento e l’intelligenza per riconoscersi e per odiare la tirannia» (La Boétie, 2014, p.49). C’è bisogno di «una educazione alla libertà, che dev’essere educazione anzitutto sui fatti della diversità individuale e dell’unicità genetica, e i valori della tolleranza e della reciproca carità» (Huxley, 2020, p.314), così da rafforzare “la social catena”, presupposto fondamentale per aspirare ad una comunità umana fondata sul concetto arendtiano di pluralità, su una condivisione dello spazio pubblico dove gli umani possono rivelarsi per ciò che sono. 

Inoltre, è di vitale importanza difendere, finché si è ancora in tempo, ciò che resta del genere umano, la sua storia, le sue espressioni vitali più elementari. «Il retaggio dell’umanità – scrive Orwell in 1984 – non si tramandava facendosi ascoltare, ma rimanendo sani di mente» (Orwell, 2021, p.387); avendo il coraggio di restare in minoranza, anche a costo di lottare contro l’intero ordine mondiale; mantenendo in sé la ferrea convinzione che esiste una Realtà depositaria di una Verità irrefutabile e incontrovertibile per cui 2 + 2 fa 4, e che nessun Partito può mai imporre una irrealtà dove tutto è modificabile a seconda delle sue esigenze. Portare avanti il retaggio dell’umanità significa anche combattere questo tipo di relativismo che, portato alle sue estreme conseguenze, rischia di negare la validità dell’esperienza, addirittura l’esistenza stessa di una realtà al di fuori dell’individuo. In questo mondo tiranneggiato dalle opinioni più variegate e dalle prospettive più capziose, bisogna «difendere ciò che [è] ovvio, banale e vero. Le verità evidenti sono vere… Il mondo materiale esiste, le sue leggi non cambiano. Le pietre sono dure, l’acqua è umida, gli oggetti senza un appoggio cadono verso il centro della terra.» (Orwell, 2021, p.446) Guerra non è pace, è annichilimento; Libertà non è schiavitù, è controllo di sé e delle proprie azioni; Ignoranza non è forza, è morte dell’anima. Il dittatore che cerca di pervertire il significato di questi concetti basilari minaccia di creare una realtà allucinante nella quale le catene e le telecamere di sorveglianza sono concepite come strumenti di libertà e lo stato perpetuo di guerra diventa una consuetudine accettata passivamente; in cui la storia è soltanto una sciocchezza destinata ad essere spazzata via e l’umanità schiavizzata vive in un eterno presente senza memoria né speranza. 

A questo mutevole mondo fantasmagorico, nel quale il nero può domani venir mutato per decreto, non si oppongono che due fatti. Uno è che, per quanto cerchiate di rinnegare la verità, la verità continua a esistere, per così dire, alle nostre spalle e che, di conseguenza, non potere alterarla (…). L’altro è che, fino a quando qualche settore della terra rimarrà libero, la tradizione liberale potrà continuare a vivere. Ma se il fascismo, o eventualmente una combinazione di vari fascismi, conquista il mondo intero, queste condizioni cesseranno di esistere. (Orwell, 2013, p.210)

Le forze che tentano di forgiare “un uomo nuovo” all’interno di un rinnovato sviluppo storico sono sempre in agguato e – se non contrastate adeguatamente con l’energia del pensiero – potrebbero prendere il sopravvento in qualsiasi momento. Per tale ragione, è forse più utile cambiare prospettiva e dire, con Carlo Rosselli, che «non si nasce, ma si diventa liberi. E ci si conserva liberi solo mantenendo attiva e vigilante la coscienza della propria autonomia» (Rosselli, 2009, p.89). La libertà s’impone dunque come una enorme sfida individuale. Sta al singolo scontrarsi con le sue incertezze, fermare quelle pulsioni che possono farlo sbandare, e diffidare sempre di tutto ciò che luccica. Certo, possono, anzi, devono esserci persone più avvedute capaci di indicare la strada da seguire, ma spetta al soggetto scegliere e percorrere la propria strada. Come direbbe Michail Bakunin, «se un popolo o un individuo non si foggia da sé un ideale, nessuno naturalmente sarà in grado di imporglielo.» (Bakunin, 2013, p.239)

Su questo punto, c’è un episodio emblematico nel capitolo XV del romanzo di Aldous Huxley, Il mondo nuovo. Il Selvaggio, cresciuto lontano dalla civiltà sterilizzante, tenta di ergersi a liberatore di quella “mirabile” umanità assuefatta all’obbedienza, distruggendo il mezzo dell’intorpidimento, il soma – una compressa che permette per pochi minuti una inebriante fuga dalla realtà, a volte troppo aspra. Rivolgendosi alla folla inebetita, il Selvaggio grida: «Vi costringerò a essere liberi, lo vogliate o no.» (Huxley, 2020, p. 173) Ma quella massa di inumani non riesce a comprendere quel messaggio di verità, e così il tentativo rivoluzionario fallisce miseramente. Questo ci fa porre una questione: Come si può parlare di libertà a degli esseri concepiti e cresciuti in provette proprio per essere adatti alla schiavitù e per non provare amore e vere emozioni? Come si può parlare di libertà a degli individui abituati alla sudditanza, che non hanno mai provato il sapore di una vita libera, che non sanno dunque il significato stesso della parola “libertà”? 

A patto che non ci si arrenda alla visione di una parte del genere umano oppressa e alienata, possiamo confidare, con La Boétie, in un’azione spontanea che nasca dal dialogo, dal confronto, dal sapere antidogmatico, per far sì che quei popoli trovino nella loro umanità un sentore di qualcosa che si avvicina vagamente a quella che noi occidentali chiamiamo “libertà”. L’umanità non ha bisogno di un messia o di un salvatore, ma solo di uomini misurati – mi riferisco a chi non accetta, in tempi di amenza collettiva, di farsi contagiare dalla folla, a chi resta nell’ombra per scorgere un bagliore di luce, a tutti quelli che non si lasciano schiacciare dal piede tirannico o dal conformismo sociale… – che, con il loro esempio, contribuiscano ad abbattere i muri eretti dalla forza subumana del potere statuale e da qualche forma artefatta di religione per separare il genere umano. Del resto, il metodo dell’isolamento dal mondo esterno praticato dalle dittature è indispensabile per la perpetuazione del potere, come dimostra questo passaggio tratto dal libro di Emmanuel Goldstein (dissidente del regime di Oceania), contenuto in 1984

Per il mantenimento della loro struttura [della struttura dei tre superstati] è assolutamente necessario che non ci sia alcun contatto con le popolazioni straniere… Fatta eccezione per i prigionieri di guerra, il cittadino medio dell’Oceania non ha mai visto un cittadino dell’Eurasia o dell’Estasia e non gli è permesso imparare lingue straniere. Infatti, se gli fosse consentito entrare in contatto con gli stranieri, scoprirebbe che sono creature simili a lui e che ciò che gli è stato detto su di loro è perlopiù falso. Il suo mondo impenetrabile finirebbe per spezzarsi e la paura, l’odio e l’ipocrisia su cui si basa il suo stato d’animo potrebbe evaporare. (…) Fintanto che [le masse] non abbiano termini di paragone a cui accostare il proprio stato, non arriveranno mai neppure a prendere coscienza della propria oppressione. (Orwell, 2021, pp.572, 583)

Questo spiega la ragione principale di alcuni provvedimenti adottati dai leader comunisti fin dall’inizio della guerra fredda. Basta pensare al blocco di Berlino – prodromo del muro divisorio del ’61 – imposto da Stalin nel giugno 1948 e durato all’incirca un anno. «Quando la cortina di ferro scende sull’Europa, Berlino forma un’enclave occidentale in territorio sovietizzato: è la vetrina dell’Occidente, dunque un invito costante al paragone e alla fuga» (Furet, 1995, p.451) L’Unione Sovietica voleva dunque evitare che l’opinione pubblica tedesca constatasse le enormi differenze sociali ed economiche tra la parte occidentale e la zona orientale dell’ex capitale del Terzo Reich. La decisione stessa di censurare e mettere al bando libri eterodossi come 1984 fu motivata dalla necessità di allontanare il più possibile le masse dalla verità. Il profondo spirito libertario che dimora in ogni pensiero di Smith non poteva non essere percepito come una minaccia da un sistema fondato sulla menzogna e sulla malafede. I sovietici avevano ben capito ciò che si nascondeva nelle parole di quel semisconosciuto giornalista inglese – infatti, nel blocco comunista (e non solo) il romanzo, nato come strumento di resistenza a qualsiasi dittatura, divenne più che altro un arguto manuale di dominio a disposizione di tiranni senza scrupoli. Chissà cosa sarebbe accaduto se i sudditi delle cosiddette “democrazie popolari” avessero avuto l’occasione di leggere e capire fino in fondo quel romanzo… Sono convinto che un libro così potente avrebbe avuto – e potrebbe avere tuttora – la forza di cambiare il mondo.

La via da percorrere è dunque tracciata e le alternative sono ben chiare. Non è determinismo, è puro individualismo. L’uomo può trovare in sé con le sue forze cognitive quella «propensione», per non soccombere sotto i colpi di un astuto politicante, per costruire «una società non utopistica, meno perfetta e più libera» (Nikolaj Berdjaev), per annunciare in definitiva un futuro libertario.

A distanza di quasi cinquecento anni, La Boétie non perde la sua veridicità, rivelando ciò che molte volte resta celato. Questo giovane filosofo non morì in realtà all’età di trentatré anni nel 1563, perché, come ogni genio, continua ad esalare il suo respiro anche dopo l’apparente morte, a infondere il suo spirito indomito, tramite parole memorabili, a tutti coloro che anelano alla libertà. Come scrive Thomas Pynchon, «ciò che è decisamente più importante, forse l’unica condizione necessaria, per essere davvero dei profeti, è saper scavare più a fondo degli altri nei recessi dell’anima umana.» (Pynchon, 2021, p. 318) Ecco, forse Étienne de La Boétie ci è riuscito.  

Vorrei concludere con una strofa, tratta da una poesia di Orwell intitolata A volte, nei giorni di metà autunno, che suona come una parenesi molto simile a quelle lanciate da Étienne de La Boétie nel suo Discorso:

O tu che passi, fermati e ricorda

quale tiranno tiene legata la tua vita;

ricorda l’ora, fissa e inconsolabile,

il colpo devastante, il buio oltre.

Non smettiamo mai di pensare, esistiamo!

Bibliografia

Michel de Montaigne, Saggi, Giunti Editore/Bompiani, Milano, 2014

Étienne de La Boétie, Discorso della servitù volontaria, Feltrinelli Editore, Milano, 2014

Giorgio Melchiori, L’uomo e il potere, Einaudi Editore, Torino, 1973

Hannah Arendt, Auschwitz sotto processo, in Responsabilità e giudizio, Einaudi Editore, Torino, 2010

Hannah Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura, in Responsabilità e giudizio, Einaudi Editore, Torino, 2010

Simone Weil Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi Edizioni, Milano, 1983

Aldous Huxley, Il mondo nuovo, Mondadori Libri Milano, 2020

Aldous Huxley, Educazione alla libertà, in Ritorno al mondo nuovo, Mondadori Libri, Milano, 2020

George Orwell, Adolf Hitler, “Mein Kampf”, in Quale tiranno tiene legata la tua vita, Capponi Editore, Ascoli Piceno, 2022

George Orwell, A volte, nei giorni di metà autunno, in Quale tiranno tiene legata la tua vita, Capponi Editore, Ascoli Piceno, 2022

George Orwell, 1984, in Trilogia della Libertà, Garzanti, Milano, 2021

George Orwell, Sguardo retrospettivo sulla guerra spagnola, in Nel ventre della balena, Bompiani, Milano, 2013

Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Bur Rizzoli, Milano,  2003

Carlo Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi Editore, Torino, 2009

Michail Bakunin, Stato e anarchia, Feltrinelli Editore, Milano, 2013

François Furet, Il passato di un’illusione, Arnoldo Mondadori Editore, Milano,  1995

Thomas Pynchon, Postfazione, in 1984, Einaudi Editore, 2021

Autore: Serafino Di Sanza

Nato nel 2003 e cresciuto in Basilicata, ho conseguito la laurea triennale in Scienze internazionali e diplomatiche presso l'Università di Bologna e sono attualmente iscritto al corso di laurea magistrale in Filosofia e linguaggi della modernità presso l'Università di Trento. Amante del pensiero libertario, considero come miei maestri spirituali Albert Camus, Simone Weil e George Orwell. Credo nella forza rivoluzionaria della cultura, l'unica arma non violenta in grado di migliorare il mondo.

One thought on “LIBERTÀ UMANA, POTERE POLITICO: LEGAMI E CONVERGENZE TRA ÉTIENNE DE LA BOÉTIE E LA POSTERITÀ 

  1. Ho letto con piacere il saggio del giovane autore Di Sanza su Etienne de La Boètie che, attraverso l’analisi comparata sul rapporto tra libertà e potere, punta i fari su un tema che a distanza di mezzo millennio è ancora di grande attualità. Trovo encomiabile l’interesse di un giovane studioso su un testo fondamentale per la filosofia politica moderna e rivoluzionario nel modo in cui rovescia il pensiero tradizionale mettendo in luce come il potere si nutre della connivenza e della volontà di servire dei sudditi. Pur nella consapevolezza che è sempre un’impresa ardua racchiudere in poche pagine il pensiero di un intellettuale erudito quale è E. de La Boètie, il saggio stimola la curiosità e invoglia ad approfondire l’analisi, estendendola, magari, alle tante forme di tirannie dei nostri giorni.

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